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Ho vaghi ricordi di Carmelo Bene, qualche passaggio televisivo, qualche lettura critica sul suo lavoro e poc’altro, ma va bene lo stesso per ricordarlo oggi a dieci anni dalla sua scomparsa. In effetti come molti critici si sono affrettati a dire Carmelo Bene manca di più a chi non l’ha conosciuto, a chi non ha avuto il piacere di poterlo ammirare in scena poiché Bene era un atipico nel verso senso della parola del teatro non solo italiano ma oserei dire mondiale. Carmelo Bene, se si può usare un eufemismo non metteva in scena un bel niente, anzi era uno che dalla scena toglieva fino a raggiungere il suo scopo che era quello di dar corpo e visibilità alla sua voce: une vera e propria macchina attoriale.
Chi volesse conoscere Carmelo Bene e la sua opera non deve fare altro che addentrarsi nella sua “Autobiografia di un ritratto” prefazione alle 1500 pagine delle sue “Opere” dove risulta evidente il pensiero del salentino: “Fuor dell’opera, si è capolavoro”. Un uomo Carmelo unico nella storia del teatro italiano: cattivo, umanamente impossibile, ossessivo, violento ma assolutamente artista e genio che ha vissuto la sua arte in modo completo. Quindi macchina attoriale a tutto tondo che è teatro essa stessa. Carmelo Bene era il teatro del Novecento così come il Novecento a teatro e seguendo questa dicotomia è riuscito a portare il teatro negli anni Duemila, liberandolo dalla messinscena della servitù della parola come già un altro grande come Antonin Artoud aveva tentato di fare. Esibizione dopo esibizione. Polemica dopo polemica. Battaglia dopo battaglia. Un’esistenza agonistica la sua. Carmelo Bene è stato allo stesso tempo Artaud, Schumann, Baudelaire, Heiddeger, Caravaggio; ha interpretato una parte di ognuno di essi, era voce, musica, mondo universo; oggi si definirebbe una voce globale.
“Ha fato cinema, televisione, radio. Ha scritto molto e molto ha bevuto, prendendo in contropiede mode e luoghi comuni. Come risulta da un suo libro, è anche apparso alla Madonna. Amava scioccare. E’ stato odiato e santificato, soprattutto Otralpe da intellettuali come Gilles Deleuze e Jean Paul Manganaro. A differenza di Van Gogh, si è largamente vendicato della vita”.
Carmelo Bene era uno conscio di quella che è l’esistenza di ognuno di noi, da subito aveva cominciato il suo cammino verso la morte, dal giorno della sua nascita come amava sostenere “Carmelo Bene è morto nel 1937 a Campi Salentina, non è nato” e difatti ogni sera sul palco Carmelo moriva sempre un po’ di più e morendo liberava parole, fregnacce, palloncini pieni di piscio, rutti, invettive, fiamme, tutto ciò che possiamo chiamare poesia. Nonostante questa specie di “scandalo teatrale”, l’arte di Bene non ha niente di scandaloso e provocatorio. Il suo è un percorso che altro non è la sfida con se stesso: le tappe di una ascesi barocca e colorata, una presenza scenica magnetica e ingombrante. La sua ossessione era il confronto narcisistico e vampiresco con il femminile; si può affermare che tutto il suo lavoro è un confronto serrato con figure femminili salvifiche e impossibili, ironiche e degradate. Attraverso ciò Carmelo Bene riusciva ad esprimere una profonda antropologia e parodia dell’Italia: le sue immagini (al teatro come al cinema) sono popolate da coppole, tricolori, intellettuali tromboni, guitti, opere liriche e un campione di santi, madonne, poeti e navigatori.
“Il padre lo sognava notaio, la madre prete. A cinque anni era già chierichetto. Estasiato dall’appeal inorganico delle Madonne di cartapesta, imbevute di sensualità pagana dagli artigiani locali. Una volta sollevò furtivo la veste della sua Madonna prediletta, rimanendo pietrificato dalla visione di uno scabro supporto di legno. La liturgia era uno spettacolo vertiginoso. Grappoli di beghine che litaniavano a gole spiegate, in un pastiche di latino maccheronico e dialetto locale. Divorava ostie con gli altri chierichetti, affamati e clandestini. Frotte di giovani operaie gli si spogliavano davanti, incuranti della sua precocità. Molto più perturbanti delle Madonne. Un’infanzia costellata di stupori e desideri. E di apparizioni spaventose, tatuate nella memoria, come le reliquie dei martiri di Otranto. E infine la sua aspirazione più profonda “essere finalmente il più cretino di tutti”.
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