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Carmelo Bene, “Il mio testamento dalla tomba del teatro”

Creato il 15 novembre 2013 da Marvigar4

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Carmelo Bene in scena all’Argentina di Roma con un lavoro sull’invulnerabilità di Achille

Il mio testamento dalla tomba del teatro

Dal 24 al 30 novembre con testi di Omero, Stazio e von Kleist

di CURZIO MALTESE


ROMA – Nella stanza rossa dell’attesa, la notizia colpisce alle spalle: “Carmelo Bene è morto, per favore non pubblichi foto, soltanto spazi bianchi”. Una sciagura, ma poiché a dare il prematuro annuncio è lo stesso defunto, se ne può discutere. È l’inventore di divini spettacoli, dai “Pinocchi” a “Nostra signora”, che ancora meravigliano nelle notti di RaiTre a trent’anni di distanza, torna in scena dal vivo o quasi all’Argentina dal 24 al 30 novembre con un lavoro sull’invulnerabilità di Achille, anzi l’invulnerabilità con il trattino come il centrosinistra.

Achille, l’eroe sciocco, l’invulnerabile che corre alla rovina, una ventennale ossessione di Carmelo Bene che come invulnerabile ha vissuto la vita e ne porta i segni. I testi sono naturalmente da Omero, poi dall’Achilleide di Stazio e dall’amato von Kleist (“Goethe, da assessore al classico, lo odiava quasi quanto odiava Beethoven”) e dello stesso Bene, appena sommerso da una slavina di premi per il poema ‘l mal de’ fiori, “opera di altissima macelleria” dove il maestro, tumulato da tempo è senza rimpianti il cadavere del teatro, si dedica a farla finita una volta per tutte anche con la lirica del Novecento, ai suoi sopravvalutati Montale e Quasimodo, per tornare all’ottima pagina bianca. Perfino Bene è disposto ad ammettere che si tratti della più importante opera poetica del secolo. “Considero queste di Achille le mie ultime prove, un testamento fra il concerto e lo spettacolo. E lo sconcerto dello spettacolo, che in me è forte quanto la vergogna di apparire davanti a un pubblico che intendo coinvolgere il meno possibile. Contro la retorica della partecipazione, vorrei che gli spettatori facessero come me, si comportassero come se non esistessero più. Basta un colpo di tosse e si fa sipario”.

Un applauso alla fine è consentito?

“Per carità, l’applauso è un’infamia. Ormai il pubblico a teatro applaude soltanto per pietà, nella giusta convinzione che, con un po’ di prove, quelli in platea farebbero meglio di quelli in scena”.

Pare che il suo giudizio sul teatro non sia migliorato con gli anni.

“La situazione del teatrino, nazionale e non, riflette la generale resa alla mediocrità che avanza in un mondo dove l’arte si è messa da parte da sé. Che, se vogliamo è perfino un bene”.

Son cose che ha già detto trent’anni fa e da allora non mette più piede in un teatro da spettatore, o no?

“E che cosa dovrei andarci a fare? L’arte non esiste più, è diventata una sottospecie del turismo di massa. In questo senso l’intuizione del ministero di Turismo e Spettacolo, che allora io chiamavo Spettacolo del turismo mancato, si è rivelata esatta. I teatri sono filodrammatiche di impiegati guidati da un facchino che ha letto qualche giornale in più. Tutti fermi al ruolo, alla rappresentazione, cose che attraverso di me sono state debellate tanti anni fa. Gli autori non esistono. Al pubblico si danno cose che già conosce. È tutto un ripetere, recitare, recensire, riscoprire. Ora per esempio si riscopre Eduardo, senza Eduardo, il che è impossibile. I suoi testi, le Filumene Marturano, sono ben poca cosa. La grandezza di Eduardo era altro”.

Capisco che non sia la sua prima preoccupazione, ma se dovesse dare un consiglio a chi si ostina a fare teatro?

“Baudelaire diceva: il teatro non sarà mai nulla finché gli attori non si decideranno a usare dei portevoix, oggi si direbbe dei microfoni, a salire sui trampoli e a fare uscire di scena le donne”.

In fondo, sarebbe un ritorno alle origini, al teatro greco.

“Perché, i greci non avevano già capito tutto? Soltanto io sono andato oltre, all’essenziale. Ho tolto di scena, al posto di mettere in scena, lasciando soltanto la voce, la musica”. Tornando all’Achille e al suo testamento… “È un omaggio alla nostalgia per le cose che non furono”.

Ma la nostalgia è sempre per le cose che non furono.

“Esatto. E questo è il senso di tutto quanto ho fatto in teatro. E poi in poesia, al cinema, in radio, in televisione…”.

È sbagliato vedere nelle sue ultime prove segni di un’attenzione per la religiosità?

“Il sentimento religioso mi attira più che mai ora perché non esiste più, soprattutto grazie alla Chiesa. Si prenda questo nauseante Giubileo. Hanno demolito ogni residuo di sentimento religioso di questo coma che è la vita, per celebrare un’altra festa del turismo di massa. Con l’applauso dei cosiddetti laici, i laidi e laici che hanno magnificato lo spirito di queste greggi turistiche in pellegrinaggio. Mentre ci sono politici, come quel Casini, che parlano di Dio come se fossero in confidenza. Col Giubileo il cattolicesimo ha confermato la sua inferiorità rispetto al protestantesimo, che non nega l’individuo e non ha bisogno di questo delirio di massa”.

Guy Debord profetizzava già negli anni Sessanta il ritorno al cattolicesimo, che sarebbe più adatto alla società dello spettacolo.

“O alla società dell’avanspettacolo, com’è questa. Negli ultimi trent’anni sulla scena della storia ci sono soltanto attorucoli. Questo Papa non era forse da giovane un mediocre attore polacco? Ha soltanto celebrato se stesso e i suoi predecessori, un fatto di narcisismo. D’altra parte tutti i Papi hanno sempre saputo che Dio non esiste, altrimenti si sarebbero comportati diversamente”.

È la stessa teoria secondo la quale i segretari del Pcus non hanno mai creduto nel comunismo.

“Certo. E non c’era bisogno di aspettare la caduta dei muri per celebrare il fallimento del comunismo. Era tutto già scritto nel suicidio di Majakovskij nel ‘30. Quello che non si dice è che insieme al comunismo è morto lo storicismo, l’idea che la storia serva a qualcosa, e l’illusione stessa della politica. È ora che la si finisca con questa assurdità che l’uomo sia nato per occuparsi del prossimo. La fraternità, la solidarietà sono sentimenti inumani, non ci appartengono. Se l’uomo è nato per qualcosa è per rovinare se stesso. Homo homini lupus, di Hobbes, va letto nel senso che l’uomo è lupo di se stesso, più che divoratore dell’altro”.

Il suo ottimismo si estende anche alla democrazia, immagino. Che ne pensa di questo avanspettacolo dell’elezione americana?

“C’erano periodi dell’impero romano in cui circolavano due o tre imperatori, come in queste settimane, e anche quelli non erano un granché. Il tutto certo è ridicolo. Non esistono più tragedie, è tutta fiction. Anche le guerre sono diventate fiction. Si vive in un eterno quotidiano dove la spinta all’immortalità è cancellata. L’eternità è il banale, il quotidiano ripetuto all’infinito, la televisione”.

Il Grande Fratello?

“Come, scusi?”.

Niente. C’è qualcuno o qualcosa che rimpiange dell’epoca dei suoi esordi, della vita culturale degli anni Sessanta e Settanta?

“Non ho fatto in tempo a conoscere Tommaso Landolfi, al quale i suoi amici, non molti, dicevano che io somigliassi. Mi capita di pensare a Pasolini, a proposito del quale ho evitato con cura di leggere le celebrazioni di queste settimane sulle gazzette. Eravamo amici, nonostante la differenza di età. Penso alla sua grandezza di antipoeta, di bestemmiatore di fede e speranza, di corruttore. Al suo autolesionismo, che non è masochismo ma autodistruzione. Le nostre brave sinistre non hanno mai voluto accettarlo in questa dimensione eppure basta sbirciare nel Salò. Moravia lo diceva: il poeta è cattivo. I poeti devono essere cattivissimi”.

(La Repubblica – 20 novembre 2000)



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