Carmelo Pistillo: portare in sé i motivi …

Da Narcyso

tratto da LA CLESSIDRA 1/2  2012

Carmelo Pistillo, I PONTI, I CERCHI, La vita felice 2011

…bisogna continuare
a portare in sé i motivi,
per anni, si deve saper tacere.
Gottfried Benn

Per anni si deve tacere…che cosa si può dire, o scrivere, dopo che si è taciuto per anni? Innanzitutto si può dichiarare un mistero, rimasto irrisolto, malgrado gli anni: quello cioè dell’unità dell’essere che si è mostrato nell’immagine di una rosa, così come la descrive Rilke nell’epitaffio posto a guardia della sua tomba: rosa limpida contraddizione.

La rosa, nella storia sterminata della sua simbologia e delle varianti,  è l’essere,  il mistero del suo chiarore e della sua ombra, della sua unità e dei suoi livelli: apertura e chiusura; trasparenza, non per ultimo.

Quando si è taciuto per anni, si giunge per forza da un luogo a parte, ben coscienti del compito di rinominare la rosa infinita, declinarne il senso, squadernarla,  avrebbe detto Montale, davanti al corpo osceno della commedia, prima che essa sfiorisca e si richiuda.

Le due successive citazioni completano il quadro di riferimento di questa poesia:

Ho sognato che mi   stavo
arrampicando insieme a te
su per questi libri,
questi scaffali in alto,
e mi è girata la testa.
Puskin

E’ il tema della vicinanza, della fratellanza, addirittura, con i poeti. Con i libri alti, le prove di vita e di parole che sempre li accompagnano.

E ancora:

Il compito sei tu.
Da nessuna parte si vede un alunno.
Kafka

Questa volta si tratta di affrontare il tema della solitudine dello scrivere, gesto responsabile  e senza steccati, rischioso  per statuto, che non ci preserva dagli errori di fronte a noi stessi.

Insomma, ci sono poeti nelle cui parole si avverte un’ontologia, piuttosto che una ricerca. Epigonali, nel senso di abitare le forme del limite, quel luogo, cioè, che non appartiene completamente a nessuno, neanche a noi stessi che ne tentiamo una descrizione.

Se ricerca c’è, questa è da intendersi come variazione intorno al tema fondante della ferita ad essere, dell’essere stati catapultati nelle maschere del mondo.

Allora, a proposito di questo libro, l’esercizio potrebbe consistere  nell’evidenziare le parole che valgono per sempre, che resistono e coesistono a/col tempo di Cronos:  quello delle apparenze necessarie, delle forme. Per esempio: dolore, voce, parola, alfabeto, forma, luce, cielo, schianto, tempo, sguardo, appello, esattezza, assoluto

Le parole immerse nel mondo, in “un’epoca (che) legge/senza regole/e vive senza sapere”, vanno riesumate ogni volta e vivificate dal compito di mostrare loro  le semplici verità con le quali siamo costretti a fare i conti: il mistero della vita e della morte, l’ineluttabilità del dolore; la necessità, per i poeti, di imparare le parole degli altri poeti, i modi e le strategie con cui essi, da parte loro,  hanno deciso di svolgere lo stesso compito.

Le parole dei poeti sono come le premonizioni tragiche di Cassandra, piuttosto che le voci confuse della sibilla. Ecco perché, forse, la nostra epoca non accetta la poesia: perché essa ci fa vedere prematuramente il rischio della fine, rivolta la maschera tragica del mondo in ghigno.

Il dolore era già
prima di noi,
sconosciuto alla voce.

*

Non poter essere che così
assidui nell’ombra.

Questo essere “assidui nell’ombra”, ci dice di uno stato: schiantati sulla superficie della terra dopo l’esplosione di una stella, proiettati nell’ombra di una verità che non ci è dato di conoscere; frantumata. Non morti ma vivi in questa sottrazione.

Il libro, così, è attraversato da alcuni grandi miti del decadentismo europeo: per esempio quello dei bambini/anime ancora non nati, messi a guardia di una visione, di una spaccatura nella presenza/assenza:

Non ci sono angeli
o specie di croci
ma bambini all’alba
abbracciati ai fiori.
Sono sentinelle
da un capo all’altro
del ponte,
sono lo sguardo
in cima al tempo,
lo sguardo che conta.
p.19

Il tema orfico della rinascita: tornare creature, descritto in un’intera scena con piglio visivo, pittorico:

Nel momento in cui siamo
entrati nella sala delle funi,
l’autoritratto sul podio
era più stretto e pendeva nel buio,
cinto dalla sua mortalità.
Guardava cieco i suoi maestri
salire dalla buca, muti in corteo.
Presi dai loro intervalli
e dalla fine del tempo battuto,
venivano avanti per promessa
e per atrii, nessuno
aveva giurato, nessuno
aveva provato ancora pensieri,
e pregato.
p. 44.

Che cosa si salva di noi, nel tempo di pericolo in cui giungiamo? Che cosa ci salva?

Innanzitutto il fiuto dei cani:“L’istinto dei cani/sa dove è vietato/morire, conosce/i quartieri, le case”, p.22.

E poi lo sguardo, uno fra i tanti, ma forse il più incisivo: quello dei bambini: “Dopo si è scostato il tremore/nella pupilla dei bambini”, p.43.

E ancora una visuale dall’alto, dal ponte, per cogliere la geometria di cui sono fatte le cose e per innestarsi nel grande ciclo: “gettare il proprio banco”, saper cogliere le ortografie opache che ci abitano.

Tutte queste visuali, segnalano una mobilità dello sguardo, una teatralità del vivere il grande scenario naturale, inteso non come sfondo, ma luogo imperscrutabile e indifferente dell’accoglienza.

La scrittura è, dunque, atto di auscultazione di un grande corpo malato perchè “la primavera/non pareva venire mai/non sentiva il bisogno di entrare…”; perché è malato il melograno, sfera micro/grande della incessante polluzione della vita, e scenario, quindi, di tutte le nostre mutazioni: “l’emozione del melograno” ritorna alla sua struttura, sembra implodere “dilaniata da cento e più melodie”.

Il rapporto con Rilke, il nume tutelare di questo testo, forse è da intendersi nel senso di un’accoglienza dell’unità mistica di differenze confluenti “l’anello nero (che) trapassa in quello nuziale”. Si scrive in una comunità e nello stesso tempo si è distanti.

Nel tema di questa inadeguatezza, si colloca il testo più commosso del libro: quello che tenta di descrivere l’immagine intatta della sorella Maria e l‘approssimazione delle parole a definirla, come inadatta è la parola a dire dei fiori.

Tutto questo sottintende la cosmogonia dei cerchi musicali; l’ubbidire, o il negarsi della parola ad essere musica non scritta, parola cantata dai cipressi, voce di bambini non nati.

Il libro allora, forse, ci parla del tentativo/desiderio di accordarsi all’armonia e alla complessità della rosa, a ciò che è concentrico e vario ma che si può osservare solo dall’alto di un ponte. Molte parole, in sottofondo, a dire di questo tema: musica, intrecci, fiori, cori, legare…

Deve essere certo
il buio che confonde
e tiene unito il mondo,
che nello schermo intero
sveglia il futuro
e lega, come in un film
che rimane muto,
tutte le note

Questo progetto, però, può venire solo dalla constatazione di uno stato perturbato dell’essere: si sta male. Il corpo, infatti, è apparente, doppio; lo si capisce, per esempio, dal  tema del sosia:  gli eredi non vivi; dalla descrizione di corpi sempre mancanti di qualcosa, mutilati. Rilke si firma così: non è solo R.M.R.

Anche lo sguardo è sghembo; i libri sacri – i vangeli  -   sono sogni orali, graffiti apocrifi senza muro. Lo sguardo del Pontorno è abnorme ma solo perché egli fa parte di tutta quell’arte dichiarata manierista, terribile e inaccettabile,  ma solo perchè capace di mostrare il lato diabolico della visione.

Scrittura accesa e lirica, quella di Carmelo Pistillo, che sa studiare il tratto preciso del realismo, il corpo osceno della commedia. E la commedia è oscena perché si nutre, mentre la poesia, per descrivere, può solo ascendere. Mentre la prosa è, sta, i poeti non sanno leggere; accelerano. I poeti vanno a capo.

E’ descritta, quindi, la solitudine del fare poesia, perché non si tratta di descrivere qualcosa ma di trovare quella riga lunga sottratta per unire, in qualche modo, due punti distanti dell’universo. Se questo non avviene, è perché non c’è corrispondenza tra chi legge e chi scrive:  chi ascolta è rivale e ruba la scena, decisamente mangia pistacchi.  Noi, poeti, siamo dunque errati, o erranti; non specchiati.

Sebastiano Aglieco


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