Carmen written by Marco Inguscio

Da Parolesemplici

Usciti insieme.

Si rese conto della fortuna che aveva nel vederla rivestirsi in quella casa bassa, che aveva il soffitto e le mura come la stoffa del tettuccio di una macchina scassata. Tra le macchie di umido, la t-shirt che infilava il collo biondo di lei, gli parve un vero miracolo. Due minuti più tardi avrebbero rifatto l’amore.La casa.

Carmen mi venne ad accogliere all’entrata del cancello, all’inizio del suo viale alberato. Un viale alberato. La cosa mi rese nervoso e curiosamente preoccupato, preludeva a qualcosa che aveva a che fare con l’intrattenere di certe situazioni imbarazzanti, mentre quello che volevo io era salutare velocemente qualcuno in casa e vedere la sua stanza rosa. Non sapevo se fosse realmente rosa ma non potevo fare a meno di immaginarla così.

Prima di lei comunque arrivò il suo cane. Un cane grande, un pastore robusto che aveva il pelo più nero e più folto ogni volta che abbaiava e che avesse dato il suo giro sulla colonna del cancello, una specie di evoluzione pilifera aggressiva. Rimasi mal piantato sui piedi senza concedermi nessun movimento, fino a quando non arrivò lei.

Carmen fece un gesto rapido sul muso del cane che si acquietò quasi immediatamente con un rapido collasso dei muscoli, che mi parve uno di quei brividi di freddo che vengono all’improvviso, ed anche in quel momento riconobbi nelle sue dita ossute uno smalto trasparente. Aprì il cancello e facendomi passare non mi disse ciao, entrambi sapevamo che in certi giorni non era necessario, e mi regalò un bel sorriso e uno sguardo mezzo assonnato, ed anche questo era molto suo.

Facemmo quasi tutto il viale in silenzio, col cane che ci tagliò la strada più volte provocando qualche risata di nervosismo. Solo un momento lei mi accennò che aveva visto una nuvola strana quel pomeriggio. Altro tipo di divagazione meteorologica, pensai io. Approfittai di quei momenti per interessarmi ai suoi abiti, calze chiare, una gonna di cotone e seta che flirtava con l’interno delle sue gambe fino alle ginocchia, una maglia di una o due taglie più grandi con lo scollo che arrivava ampio sui due seni, due meloncelle con capezzoli indistinguibili nonostante l’aria frizzante di inizio Aprile. In fine una giacchetta color ghiaccio che sembrava dovesse vestire perfettamente se indossata con una collana di perle.

Entrammo in casa, e subito in un abbraccio di legno bianco si apriva, a destra dell’ingresso, la cucina dove c’era la signora sua madre. Tutta vestita di nero, era una donna di statura medio – bassa, con un collo corto ed una faccia rotonda, i denti non perfettamente bianchi, nonostante si intravedessero chiaramente gli sforzi di una cura maniacale e continua su quelli ed anche il resto del corpo, che era tonico ma non naturalmente, roba da palestra pensai. Un seno ristretto a muscolo e messo in evidenza con un push – up, un ventre piatto nonostante l’età ed un ombelico sofferente che vorrebbe tanto rilassarsi, delle caviglie strette sulle quali si muovevano a passetti svelti i piedi incastrati in tacchi rosso mattone di taglia 39. Mentre Carmen mi aveva preso per mano e mi tirava dritto costringendomi ad un passo da marcia accidentata, la donna mi diede un distratto sorriso di cortesia e ci salutò, proprio come avevo immaginato,  con un cenno veloce, incurante del fatto che tra poco avrei fatto sesso non convenzionale con sua figlia esattamente sulla sua testa.

Mi ricordò in modo triste e bizzarro una di quelle 5 o 6 signore che venivano spesso nella discoteca dove lavoravo. Un gruppo di zitelle attempate e selvagge che si ritrovano in qualche network e decidono di stringere amicizia, o meglio un sodalizio, per andare a trascorrere qualche serata insieme. Ce ne erano alcune, forse le più timide o forse solo le nuove arrivate, che se ne stavano alla periferia della pista azzardando sui ritmi forsennati di drum & bass, qualche passo di mazurca portato a tempo. Le più convinte invece, attiravano a se maschi con magliette lungomanica bianche e aderenti, con cinturoni in finto cuoio e fibbie lucide, busti sproporzionati e capelli (spesso lunghi) con una apparenza di pulizia che si traduceva in una efficientissima e catarifrangente brillantina in puro stile ‘70. Si lanciavano in balli filo sensuali, tentavano muovere il bacino in maniera provocante  abbassandosi sulle ginocchia e diventando qualcosa di romboidale e ridicolo nella sala da ballo cutre, buia e cupa, con mattonelle bianche e nere. Una frustrante ricerca di riscatto dalla vita, che non era stata generosa o abbastanza giusta con loro, in qualche bicchiere con alcool scadente e degli amplessi da motel ad insegna verde intermittente che gli inumidissero le gambe.

Non avevamo ancora preso le scale che feci a tempo di girarmi sulla sinistra verso il salotto e vidi la faccia gonfia di un bambino, che aveva due bei marchi rossi sulle guance, come se qualcuno gli avesse appena dato dei pizzicotti tenaci sulla pelle sensibile, come si direbbe in questi casi.

Aveva una espressione imbronciata, un camioncino in una mano(la destra), un mattoncino della lego(rosso) nell’altra. E’ sicuramente uno di quei bambini che durante le feste di paese scoppiano il viso con pianti incessanti se non si vedono in grado di ottenere l’ennesimo giocattolo da rottamare tra le mani, da quegli idioti dei lori padri.

Facendo le scale Carmen si girò regalandomi un altro sorriso, con quei suoi zigomi che si gonfiavano e arrossivano come due nasini da clown agli apici della bocca grande e labbra pressoché perfette.

Pensai a lei che scappava su quelle scale come faceva dalla sua vita, ed il sorriso arrivava solo dopo essere andata avanti.

Carmen fumava ma coscientemente, adorava ascoltare la musica a piedi nudi, aveva un rapporto da sorella con la danza che non aveva mai praticato a dispetto delle gambe e del busto lungo, e che esercitava in modo naturale con il sentire certo di poter eccitare gli uomini e gli animali. Ma Carmen non era una con la testa tra le nuvole, era concreta, a volte cinica, sapeva che doveva lottare per staccarsi da tutto. Credeva in quello che faceva e del destino una sera, in una “festa ARCI”, mi disse  “il destino? E’ una questione di rassegnazione, nessuno avrebbe potuto sapere che avrei sputato su quel palo. Nemmeno il palo stesso”. Rassegnarsi, in quel caso, era evidentemente il contrario di arrendersi per lei, perché “anche se è molto dura, nel primo caso stai ancora lottando, nel secondo invece sei come la testa di un ghigliottinato che rotola, ed aspetta solo di perdere conoscenza”. Era intelligente e raffinata, sapeva cosa era un buon libro, del buon vino e del buon sesso, in tutti i casi questione di gusto e bocca buona.

-“Chi era il bambino?” le chiesi, sperando non fosse suo fratello. Non mi piaceva per via di sua madre in cucina, e non mi piaceva nemmeno lui, anche se di norma coi bambini bisogna essere più indulgenti. -“Amici di famiglia. A volte ce lo lasciano in consegna. Non mi piace, non riesco ad essere divertente con lui”. Sorrisi perché sapevo che non era del tutto vero.

Quando entrai in stanza scoprì che non era rosa ma azzurra. Non mi sorpresi più di tanto, anzi mi piacque. Lei mi chiuse dietro la porta con la chiave, il ché mi eccitò senza rendermi nervoso. Da quell’istante in poi, tutto mi parve una sorta di rituale, i preparativi per una consegna al sacro. Pensai nel dirle subito qualcosa, qualcosa di carino, ma trovai difficoltà, forse perché davvero non ne aveva bisogno. Si sa, per le persone coscienti i complimenti, sono terribilmente stucchevoli se fatti per galanteria o autodifesa. Allora come sempre lei mi anticipò e parlammo: delle autostrade in altre nazioni, del Grunge, del deltaplano che lei aveva provato, delle letture e del fatto che sempre ci fosse tempo per le letture, e realmente ci parve una cosa bellissima – e tutto questo anche era molto suo -

Quando ci fermammo io ero già seduto sul letto, felicemente in trappola, lei era dall’altra parte della stanza che mi guardava ed inclinava la testa come una cerbiatta che vuole essere il torello nella sabbia. Ci guardammo fissamente negli occhi per un tempo indeterminato, che sembrava fatto di altro, di coriandoli che bruciano, miodesopsie spirituali, filtri d’aria che ovattavano i suoni e li dilatavano come le corde vocali di un attore Odiniano. Qualcosa di sfrontatamente lento che non saprei spiegare con parole e che ci metteva alla prova.  – Mi sentii un poco in imbarazzo per la mia iride banalmente marrone –  Poco dopo eravamo già nudi, corpi come cuscini senza fodera.

Venne che era ancora su di me e sibilò come uno strumento a fiato dalla nota sottilissima, da piacere esiliato, in risonatori e corde più profonde. Io ero felice.

Mi ritrovai sottosopra e feci appena in tempo a portarmi il cuscino alla bocca, mentre Carmen scendeva ancora morbida sul pene abile come un mangia spade, perché sentivo che l’orgasmo era vicino.

-  Lei è da transenne rock..ha un lungo accordo rauco dentro l’anima e.. o lo si ascolta o no -

Rimasi fermo così, come una specie di sfinge al contrario, crocefisso a gambe aperte sul letto, per circa due minuti, non riuscendo a pensare a niente se non al fatto che avevo un cuscino sul viso. Poi ho sentito qualcosa, era sopra di me, premeva sul viso e a me sembrava chiaramente avvertire il collo sprofondare nel lattice. Sentivo la stanza di Carmen cadermi addosso. Le sue mani passate sulla fodera ogni notte per addormentarsi; gli oggetti che lei toccava più spesso nella stanza; lo specchio che lei scriveva col rossetto di tanto in tanto; il primo cellulare che è ancora l’ultimo; i fiori che tentò coltivare; il manuale di disegno che aveva comprato; il merlo che la spaventò un mattino; la colazione con sua madre quando ancora era una madre; le dita di affetto donate ai suoi cugini; il lampadario che le dondolò piano in parabolici sorrisetti durante il terremoto greco del 2006; sentì gli ultimi passi di suo padre sulle scale prima di entrare in stanza per cercare di convincerla che il divorzio fosse la migliore cosa per tutti; vidi cosa chiudeva nei cassetti insieme ai vestiti ed era la possibilità di poterli indossare, gli stessi, da qualche altra parte un giorno.

Ho pensato alle piccole scalate. La vita a volte fa male al corpo più di quanto non ne faccia la morte.

Un attimo. Ho scostato un occhio come per paura di cadere in un sogno che imprigionasse la realtà e mi ci facesse perdere. – Ci sono, ci sono ancora – Era stato come spiare da una porta ed il cuscino era la serratura. -“Sono innamorato quindi?..”-  Ho pensato. Mossi il capo verso l’altro lato della stanza, le tende si erano tornate a spalancare, la vidi di nuovo davanti allo specchio largo, nuda, poggiata con un braccio sulla console, a gambe leggermente divaricate, che si spazzolava i capelli – gesto anacronistico anche ora -. Guardai i capelli e le guardai il culo, sembrava luce che entra e si fa materia.

Mi ripromisi che avrei portato quell’amica con me un giorno, via, in altre parti del mondo, dove avrebbe fatto innamorare altri uomini e sarebbe stata felice della sua indipendenza. Si tornerebbe al tempo senza paura dal quale veniamo, a scendere delle scale chiocciola al buio, illuminandoti solo il fiato con una candela; aspettarsi il vicino di casa, spaventato da rumori di intrusi, uscire dalla porta con la schioppetta spianata per testare le nostre caviglie nodose di puledri ingialliti. Congelarsi, giù in silenzio per le scale, dopo essere stati alti come gli alberi sulla terrazza piana e larga del sud, senza parapetti aver visto il cielo sulle chiese ed i limoneti urbani, esserti misurato il profilo con le prime stelle apparse, pensando sia solo tutto quello il fumare che altera i sensi del quale parlano i “fratellastri”.

Senza paura di nuovo, andremo in città che hanno stelle per luci, ci faremo curare le tossi da molte madri accoglienti e profumate, ci bagneremo in laghi gelati per averli sempre dentro, decolleremo in cuori profondi come continenti e la risalita o la discesa, saranno la stessa cosa senza lo spavento. E potremo dire buonanotte Carmen, anzi lo potremmo urlare, alla gente che è rimasta, dall’alto di quei cuori, dall’alto dei nostri aerei, dall’alto di questa stanza, dall’altissimo che sta questo letto, urleremo buonanotte ai sognatori!

* Autore dell’immagine Théo Gosselin photographer – Title: Olive


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