Magazine Diario personale

Carnacuttaro

Da Antonio

I vocabolari lo traducono come “trippaio”. In realtà la parola descrive due “figure professionali”: il venditore di trippa, call’ ‘e trippa (la parte dura dello stomaco bovino), cientepelle (l’intestino), e ‘o pere e ‘o musso, piede e muso di maiale puliti da peli e cotti; e il venditore di una zuppa invernale di trippa e frattaglie con freselle. Talvolta le due bancarelle erano affiancate.

Il carnacurrato, conosciuto anche col nome di ventrajuolo o cajunzaro girovagava con un approntato carrettino sul quale esponeva la sua merce: trippe e frattaglie bovine e suine, già lessate al vapore e pronte per essere servite e consumate (tranciate in piccoli pezzi) su minuscoli fogli di carta oleata; i piccoli pezzi di trippa erano prima irrorati col succo di limone e poi cosparsi con del sale che veniva prelevato da un corno bovino scavato ad hoc proprio per contenere il sale, corno tappato alla base con un congruo sughero e bucato sulla punta per permetterne la distribuzione .

«Ccà stà ‘o carnacuttaro, nu rà na cotena e na fesella»: la voce tipica. Più pittoresco il grido di Ciccio ‘o Stentiniello: «S’arrobbano ‘e piatte, s’arrobbano ‘e piatte!». Ciccio andava al lavoro seguito da una carrettella trainata da un cane. Tirava giù il pentolone e la fornace, e cuoceva interiora di agnello destinate a sfamare gli operai nella pausa di mezzogiorno con un minimo esborso con i suoi lampredotti ripieni (interiora di agnelli, puliti, arrotolati e cotti con grasso di maiale condito con pomodori e spezie), chiamati ‘e Turcenielle.

Appartenevano alla categoria, ma con accentuata specificità, altri ambulanti: “‘O Cutecare“, il venditore di cotiche di maiale bollite, che andava girando al grido:

“Cavalié, ‘e perez’ ‘a valanza,

a ‘nu carrino ‘a cotena, ‘a tracchia e ll’ossa!”

Cioè: Cavaliere, ha smarrito la bilancia, con un Carrino (antica moneta di rame) ti dà una Cotica, una Tracchia (un costereccio di maiale) e le ossa (per fare un ottimo brodo).

E il popolare “purmunaro” che vendeva polmone a frattaglie a uso dei gatti: carni scadenti, dal minimo prezzo. ‘O purmunaro, ricorda D’Ascoli, usava richiamare l’attenzione dei padroni e l’appetito dei mici battendo sonoramente fra loro due bacchette di metallo.



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