Non abbiamo mai spiegato perché, al momento di abbandonare il moniker Metal Shock, abbiamo scelto l’attuale Metal Skunk. Certo ci faceva piacere l’assonanza, e sono chiarissime le varie sfumature del termine skunk, ma la cosa fondamentale è che in inglese skunk vuol dire puzzola. La puzzola è piccola, brutta, fetente, maleodorante e incazzosissima; sta sempre per i cazzi suoi e odia tutti; se qualcuno di indesiderato le si avvicina, lei spruzza un fetido liquido a base di zolfo dalle ghiandole anali, capace di arrivare fino a 3 metri di distanza e di far scappare via persino orsi, lupi e, chiaramente, uomini. Ciccio promise di disegnare una puzzola da mettere sull’header del blog, e confidiamo che un giorno lo farà.
Questa piccola premessa per dire che una situazione come quella del Tube Cult Fest è davvero tutto ciò che possiamo desiderare da un festival, e non ce lo saremmo perso per nulla al mondo: 150 persone a sera, in due pub minuscoli nel centro di Pescara convenzionati con un’arrosticineria, con la maggior parte dei gruppi già sentiti giusto di nome e per headliner i Belzebong, una band che di solito i festival al massimo li apre, ma che nei nostri cuori meriterebbe di ricevere posizioni altissime al Wacken, all’Hellfest e pure al festival di Sanremo. Per la serie: gli altri si prendano pure aquile minacciose come simbolo, sushi e supergruppi su superpalchi; noi preferiamo puzzole, arrosticini di pecora e gruppi per fattoni in provincia.
L’appuntamento è alle 20.30 a un’arrosticineria che si chiama Il Signore delle Pecore, convenzionata con il festival. Metal Skunk era presente con me, Ciccio Russo e il Masticatore, insieme ad alcuni true believers come l’eroico Roberto Angolo, nella cui casa ho trovato rifugio per dormire, smaltire le devastanti conseguenze mattutine dopo due cene a base di arrosticini e subire tremila fatality a Mortal Kombat X. Il Tube Cult è un Roadburn in piccolissimo: tutto organizzato in due pub a dieci metri di distanza l’uno dall’altro, in una tranquilla e isolata stradina del centro di di Pescara, con tanto di libretto gratuito con scaletta, mappa e descrizione dei gruppi; l’unica differenza è che, dato il costo abbordabilissimo della manifestazione (13 euro!), tra il pubblico c’è un ampio catalogo di gente che sembra capitata lì per caso, giusto per sostenere gli sforzi dell’organizzatore Davide Straccione o perché, magari, non aveva niente di meglio da fare e in provincia spesso i fine settimana vanno un po’ così.
Il primo gruppo a cui riusciamo ad assistere sono gli HAUNTING GREEN, un duo friulano (o veneto?) con una ragazza alla batteria: praticamente gli White Stripes che siamo fieri di meritarci. Non li avevo mai sentiti prima e rimango estremamente sorpreso: suonano un doom psichedelicheggiante abbastanza oscuro da giustificare la parolina ambient che ricorre qua e là nelle descrizioni della band. In sostanza è musica per fattoni, di quella che piace a noi, e di sicuro gli Haunting Green sono la scoperta più bella del festival, almeno per quanto mi riguarda. Un plauso soprattutto alla batterista, sia perché molto brava sia perché padrona di un gigantesco rottweiler che, mi si dice, pare fosse presente anche al festival.Facciamo un salto al Maze, il locale più piccolo, giusto per vedere com’è. Stanno suonando i BEMYDELAY, di cui riesco a sentire giusto qualche nota prima di venire ri-trascinato all’Orange per il concerto degli UNHOLD, apprezzatissimi dai personaggi a cui mi accompagno. La band svizzera però non è esattamente il mio genere: post-qualcosa vecchio stile, quadratissimo, con quella tipica voce monocorde, eccetera. Loro poi non sembrano svizzeri; anzi, sembrano proprio abruzzesi. Massicci come giocatori di rugby, barbe e capelli nerissimi, grugno incazzoso, tenuta di palco stile adesso scendiamo giù e vi spacchiamo i denti a ginocchiate: un po’ lo stereotipo dell’abruzzese, si potrebbe dire, anche se guardandoci intorno lo stereotipo tende a confermarsi. In particolare c’era uno dei soggetti del pubblico, che qui ovviamente non descriveremo nei dettagli, che rispecchiava in pieno lo stereotipo e che abbiamo soprannominato JU CINGHIALOTTU. Considerata l’atmosfera del festival, capirete che io sono andato in giro due giorni dicendo “sono ju cinghialottu, magnu ji arrushticini e vado aju congertu”, come un deficiente. Non citiamo altri soggettoni tra il pubblico perché eravamo in pochi e poi magari quelli leggono e si riconoscono, ma JU CINGHIALOTTU non potevo proprio tralasciarvelo.
Insomma dopo gli Unhold qualcuno mi porta verso il Maze perché c’è LILI REFRAIN, che io non so chi cazzo sia. “Ma come – mi dicono tutti – abiti a Roma e non sai chi è Lili Refrain?”. Ma io non lo so chi è Lili Refrain, scusate. Peraltro anche adesso che ho visto un suo intero concerto non so neanche com’è fatta, perché il palco del Maze è alto quanto un marciapiede e pur non essendo io esattamente uno hobbit non sono riuscito a vedere nulla manco in piedi sullo sgabello. Tutto ciò fa comunque parte del fascino del Tube Cult, quindi seguiamo il flusso di emozioni e ci sentiamo il concerto comodamente seduti sui suddetti sgabelli. Non ho capito bene che cosa stesse accadendo sul palco, ma la signorina Refrain era da sola e cantava, suonava e faceva partire loop come se su quel palco fossero in venti. All’inizio mi lasciato indifferente, poi mi ha preso bene. Chissà che faccia ha, comunque.
Ritorniamo all’Orange per gli headliner del venerdì: i SIMEON SOUL CHARGER, quattro fattoni dell’Ohio talmente scoppiati da essersi trasferiti tutti in Baviera, probabilmente dopo essere stati folgorati dall’Oktoberfest o dai dribbling ubriacanti di Arjen Robben, questo non si sa. Fanno roba settantiana psichedelica, che io riesco a reggere per un’ora solo grazie all’atmosfera che si è creata. Il pubblico però apprezza parecchio, tanto che i quattro drogati crucco-americani si spingono a suonare fino a oltre le due accennando addirittura un riff degli Zippo, glorie locali con cui hanno fatto un tour europeo e che vede tra i membri proprio Davide, l’organizzatore del festival.
SECONDO GIORNO
L’appuntamento è di nuovo al Signore delle Pecore, che fa quegli arrosticini di fegato che piacciono tanto a noi e ai nostri gastroenterologi di fiducia. Ci fanno aspettare un’ora, passata tra insulti al Masticatore che non scrive mai niente ed evocazioni al demonio tramite pentacoli fatti con gli stecchini degli arrosticini (vedi immagine a lato), quindi ci perdiamo l’esibizione degli HYPERWULFF che alcuni di noi aspettavano con tanta ansia. Arriviamo però in tempo per lo show acustico degli SHORES OF NULL, l’altra band di Davide Straccione, ma mentre ci attardavamo dieci minuti fuori per mangiare una fetta di torta arriva un tizio, probabilmente dell’organizzazione anche lui, e ci dice che ci sono i Belzebong che vorrebbero mangiare una fetta di torta con noi. Del resto i Belzebong richiamano le fette di torta anche nel proprio moniker, quindi è un dovere morale condividerle con loro. Ci dispiace quindi per gli Shores of Null, che piacciono molto a tutti noi, ma del resto intrattenendo gli headliner stiamo facendo un utile servizio che ci fa sentire a posto con la coscienza. I polacchi contraccambiano con una vodka che, giurano, è fatta da alcune erbette che vengono contrabbandate in Polonia dalla Bielorussia. Gli chiedo se in futuro sono disponibili per un’intervista e uno di loro mi guarda con gli occhi stravolti: “Adesso?”. No, non adesso, caro il mio fattone, lo vedo che al momento non sei neanche in grado di ricordarti il tuo nome. Facciamo foto di gruppo, cazzeggiamo, ci diamo pacche sulle spalle e ci diamo appuntamento a dopo, perché adesso suonano i METHADONE SKIES, dalla Romania, che i miei sodali giurano essere molto carini. Dovete però scusarmi, cari fratelli del vero metal, ma non me ne ricordo una sola nota. Ho fatto indigestione di fette di torta insieme ai Belzebong e quindi sto lì, caracollo un po’ davanti al palco, vado a comprare una maglietta dei Belzebong, guardo i cd in esposizione, parlo dei Blind Guardian con una fan dei Blind Guardian, eccetera. Ma niente dei Methadone Skies rimane nel mio cervello, perdonatemi.A questo punto ci sono i BLACK RAINBOWS, che avrò visto una dozzina di volte e che non si smentiscono mai. Grandi intrattenitori, ormai scafatissimi sul palco, i capitolini presentano l’ultimo album Hawkdope e speriamo di vederli al Roadburn l’anno prossimo, che cazzo. Non avete idea di quante volte quest’anno io e Ciccio ci siamo guardati in faccia, di fronte all’ennesimo gruppo scrauso nordeuropeo sui palchetti del Roadburn, e ci siamo detti “Ma a sto punto non era meglio che chiamavano i Black Rainbows?”. Organizziamo una petizione e spediamoli in Olanda l’aprile prossimo, direi che i tempi sono ampiamente maturi.
La serata volge al termine e sul palchettino dell’Orange salgono i BELZEBONG, che sorprendentemente riescono ancora a reggersi in piedi. Di tutto l’ampio spettro della cosiddetta musica per fattoni loro fanno parte di quel sotto-sottogenere che preferisco, quindi mi piazzo in prima fila e rimango lì tutto il tempo. Scapocciano per l’intera durata del concerto, con un piccolo proiettore che manda spezzoni di vecchi film opportunamente montati a capocchia e colorati di verde. I pezzi sono tutti strumentali, e praticamente viene suonata tutta la discografia (cinque pezzi di tre quarti d’ora complessivamente) più, immagino, qualcosa dall’imminente Greenferno, che si preannuncia un disco della madonna sia perché sarà identico al precedente sia per il fatto che c’è una canzone che si chiama The UnderToker. Mi piazzo esattamente davanti agli amplificatori e questi per un’oretta abbondante ondeggiano avanti e indietro coi capelli davanti alla faccia al ritmo di un riff ogni dieci minuti e ogni riff fa più o meno VOMMMM VOMMMM VAVAVA VOMMMM con dei bassi che mi fanno tremare gli occhiali e dietro ste cazzo di immagini verdi di qualche film sperimentale degli anni Trenta, roba che se passassi anche solo mezz’ora al giorno così sarei la persona più felice e meno stressata del mondo. E a un certo punto mi guardo intorno e penso che a trentatré anni mi ritrovo qui, a Pescara, in un pub minuscolo, a sentire quattro cannabinomani capelloni su un palco di due metri per due che suonano VOMMM VOMMM a volumi inumani, con le orecchie che già fischiano, con i cinquanta arrosticini di pecora che mi risalgono nel cervello, in mezzo a personaggi assurdi tra cui il Masticatore che mi guarda e ride, un tizio vestito come don Juan Demarco maestro d’amore che si gira intorno spaesato, JU CINGHIALOTTU fermo immobile tutto incagnato dentro al collo che sembra non capire cosa cazzo stia succedendo, un altro che sembra uscito da un concerto di Vasco Rossi e probabilmente prima di entrare immaginava pure di assistere a qualcosa del genere, e io sono stanchissimo, distrutto, co sta birraccia calda da concerto in mano che non mi va più da un pezzo ma che continuo a bere perché è giusto così, e penso che senza tutto questo non sarei nulla. Sarei polvere. Le puzzole saranno pure antipatiche e fetenti, però alla puzzola sta benissimo così e se ti avvicini troppo non importa che tu sia orso o lince: quella ti spruzza zolfo liquido in faccia dal buco del culo. E il bello di tutto ciò è che non importa se il metal esaurirà ogni spinta creativa, o il rock stesso esaurirà ogni spinta creativa: quattro fattoni che suonano qualche riff dei Black Sabbath lentissimo e saturatissimo si troveranno sempre. Noi ci rivedremo sotto quel palco fino all’ultimo. Un grazie ancora a Davide che ha organizzato questa cosa fantastica.