Tra poco più di una settimana (precisamente domenica prossima, 20 ottobre 2013, alle ore 12) avrò di fronte a me Elizabeth Strout. Lo ripeto più lentamente, così sono sicura che capite. Elizabeth Strout.
Non è la primissima volta, a dire il vero: Salone del Libro 2012, praticamente appena entrata, prima volta nella mia vita, non avevo letto il programma né avevo idea della bolgia pantagruelica in cui mi sarei infilata. So solo che qualcuno ha detto Ah sì, nella sala tal dei tali c'è Elizabeth Strout e io ho preso il volo tipo Beep Beep. Sono arrivata che aveva quasi finito, ahimé.
Ora, se lassù me lo concedono, potrò finalmente vedere una sua presentazione dall'inizio alla fine. Qui. Mi sono documentata per bene leggendo I ragazzi Burgess, perché di certo ne parlerà, e assistere alla presentazione di un romanzo che si è già letto ha tutto un altro sapore (concordate?).
La trama è quella di sempre: famiglia, storie di vita, Maine. Ci sarebbero tante cose da dire sul suo talento, sulla fluidità delle parole (merito anche dei traduttori), su quanto si senta - leggendo - il suo lavoro di scavo nella profondità di ciascun personaggio.
Vederla e ascoltarla domenica prossima mi darà modo di parlarne. Oggi mi limito a scrivere qualcosa sul Maine.
Non so voi, ma prima di scoprirla io avevo tre immagini del Maine: Cabot Cove, Hope Springs e il f***uto Maine. Oggi ho una quarta immagine, più forte delle prime tre messe insieme. Nei romanzi di Elizabeth Strout c'è sempre il Maine. È un co-protagonista, un personaggio in più. Il Maine di Elizabeth Strout non è un'ambientazione, è un essere senziente. Apre un mondo sul proprio mondo, lo condivide con chi legge le sue storie. Il Maine senziente di Elizabeth Strout - lo si vede soprattutto dai Ragazzi Burgess - è quel parente scomodo che detesti e non sai perché, e con cui ti tocca dividere la tavola ogni Natale, e alla fine del pranzo ti ritrovi ad ammettere fra i denti che non è stato poi così male.
[Inizio parte filosofica] Credo che tutti noi abbiamo un Maine dal quale siamo scappati. [fine parte filosofica] Io di sicuro. Quando ho lasciato il mio Maine l'ho fatto con rabbia e un po' di vergogna, pena per chi restava, chiuso/a nel proprio guscio senza alcun interesse a conoscere il mondo fuori. Abbastanza comodo mettersi su un piedistallo, quando si lascia il Maine. Jim Burgess, per esempio, è diventato un avvocato di successo grazie a un processo alla O.J. Simpson. Nel Maine al massimo avrebbe difeso la vecchietta che fa causa al vicino perché le nespole del suo albero (del vicino) cadono nel suo giardino (della vecchietta). Ci metti un po' a scoprire che il Maine resterà sempre casa tua, anche se non ci abiti più e il tuo posto sarà sempre e comunque un altro. Non si scappa dalle proprie radici. Fisicamente magari sì, ma non si scappa comunque.
Questa mattina sono stata al funerale di una persona che apparteneva al mio Maine, a cui in qualche modo volevo bene. Ho osservato la sua famiglia, il loro dolore ma al tempo stesso la loro unione. Tanti e un tutt'uno. Un legame che fuori dal Maine difficilmente si trova. Quando i tre ragazzi Burgess si ritrovano a New York, sono tutti un po' disorientati. Soprattutto Susan, che dal Maine non se n'era mai andata. È come se l'estensione geografica della città allentasse i legami. Poi si torna nel Maine, le radici riprendono il loro collante, e quella patina che unisce i tre fratelli (è stato davvero Bob a causare la morte del loro padre?) si ricompatta. Ho parlato di un funerale, ma nel caso dei Burgess non c'è un lutto. Il figlio di Susan, Zachary, rischia il carcere. Jim è avvocato, Bob lo è stato, soltanto loro possono aiutare quel nipote che non vedono da anni.
Il tema è questo: la famiglia. Svolgimento: ritorno al Maine, disorientamento, poi New York, disorientamento, infine di nuovo nel Maine, disorientamento. Quello scollarsi e incollarsi di radici disorienta.
Tra una settimana la seconda puntata.