Lo si aspettava come i bambini aspettano con ansia febbrile il Natale. E dopo tanta attesa, con leopardiano senno di poi, lo si è vissuto come i grandi vivono il Natale: con (in)sofferenza, boria, vacuità. Carol è un film che lascia poco, come un bel pacchetto ma vuoto. Insomma, un pacco, doppio pacco e contropaccotto.
Carol è come una sigaretta, come una di quelle continuamente accese dalla protagonista (Cate Blanchett) a mo’ di Gloria Swanson nel Viale del tramonto. Una sigaretta che brucia, brucia di passione, che ogni tanto rosseggia infuocata, tirata per le lunghe come una noiosa serata, e che alla fine, purtroppo, lascia niente, cenere, fumo.
Carol di Todd Haynes è un film di maniera, continuamente in posa, che s’atteggia come un quadro, dal quale però non emerge nulla oltre la superficie della tela. Con inquadrature che (volontariamente e palesemente) sanno di vedute umane e urbane tra Jack Vettriano e Edward Hopper, è un film che vorrebbe raccontare l’amore “diverso” nei puritani anni Cinquanta americani, ma ci riesce solo in parte. Un melodramma (materia amata e abituale per Haynes, si veda il gemello Lontano dal paradiso del 2002) che rincorre la classe dei grandi film di un tempo, ma dietro cotanta forma smarrisce il contenuto. Un film che cristallizza e frena anche le prove incipriate delle due attrici protagoniste, Cate Blanchett e Rooney Mara. Un’opera che, pur densa di piacevole gusto vintage, trascina se stessa lungo il suo personale, e inevitabile, viale del tramonto.
Carol dice più di una volta a Therese che non è di questa terra, che è come piovuta dallo Spazio. Ecco Carol, il film intendo, forse era meglio se ci rimaneva, nello Spazio. Evitando di scomodarci a sprecare fiato e parole di fronte ad un film di cui potevamo tranquillamente fare a meno.
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