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Cartellino rosso alla geografia

Creato il 21 giugno 2013 da Calcioromantico @CalcioRomantico
2005: Il quintetto di partenza del Maccabi Tel Aviv nella vittoriosa finale di Eurolega

2005: Il quintetto di partenza del Maccabi Tel Aviv nella vittoriosa finale di Eurolega

Sfogliando un atlante geografico è lecito chiedersi perché, se Israele fa parte della UEFA (Union for European Football Associations) non possa farne parte anche il Libano, giusto per citare uno stato confinante nonché più vicino all’Europa. In questo caso la geografia presenta un’area comunemente definita “Vicino-Oriente” o addirittura “araba”, ma non certo “europea”.
A chi si interessa di basket questa inclusione di Israele nella comunità sportiva europea suona, invece, molto meno strana. La nazionale israeliana di pallacanestro partecipa ai campionati europei (organizzati dalla FIBA Europe) sin dal 1953, mentre i club israeliani hanno accesso alle coppe europee sin dal 1958, anno dell’istituzione della Coppa Campioni. E con risultati discreti visto che la nazionale ha conquistato un argento (nel 1979) e soprattutto il Maccabi Tel Aviv ha vinto ben cinque volte il massimo trofeo continentale (1977, 1981, 2001, 2004 e 2005). Per la pallavolo storia simile o quasi: europei sin dal 1948 anche se senza risultati di pregio.

La cosa strana è, allora, un’altra. Mentre per il basket e il volley Israele si sente sin dall’inizio europeo, la federazione calcistica israeliana chiede e ottiene l’affiliazione alla AFC (Asian Football Confederation) nel 1954, anno della sua fondazione. Questione di schizofrenia? o di scissione tra uomo e natura, visto che la “cultura e società” grida Europa quando la geografia dice altro?

Fatto sta che Israele calcio rimane nella AFC fino al 1974, quando i paesi arabi ne ottengono l’espulsione (sono i tempi della Guerra dei Sei Giorni e della Guerra dello Yom Kippur). Una parentesi, quella nella AFC, lunga vent’anni che si chiude con una vittoria (1964), due secondi posti (1956 e 1960) e un terzo posto (1968) in quattro edizioni della Coppa d’Asia, cui però partecipano solo nazionali del Medio e dell’Estremo Oriente e l’Iran, e una qualificazione ai Mondiali del 1970  ottenuta battendo però Nuova Zelanda e Australia. Seguono diciotto anni di iscrizioni provvisorie tra OFC (Oceanian Football Confederations) e UEFA, giusto per partecipare alle Qualificazioni Mondiali, fino al 1992, anno del definitivo ingresso nella UEFA.

Formulando una domanda più precisa di quella iniziale, è allora lecito chiedersi perché Israele fa parte della UEFA proprio a partire dal 1992. Facciamola questa domanda, perché è la domanda che farebbe cadere ogni pretesa egemonica. Quali sono dal 1992 i canoni che definiscono l’appartenenza europea?

1993: Francia-Israele 2-3. La Francia non si qualifica a USA '94

1993: Francia-Israele 2-3. La Francia non si qualifica a USA ’94

Non si tratta di geografia quindi, perché anche altri Stati “a margine” della Vecchia Europa fanno parte dell’UEFA a partire dai primi anni novanta: Armenia, Georgia e Kazakistan, ad esempio. Tuttavia si può notare come questi Stati si trovino sui confini europei, e la distanza diviene una questione porosa, composta di uomini prima che di segni sulla mappa. E si può anche notare come i tre Stati citati non facciano parte dell’Unione Europea, in quanto comunità politica ed economica: europei per il calcio, non-europei per il resto. Po-popo-popopoopo?
Non si tratta, quindi, neanche di politica o di economia. Sarà forse che lo Stato che ha ospitato l’Europeo Under 21 è europeo perché figlio dell’ideologia coloniale (e liberal) europea ancora forte nel XIX secolo?[1] Perché in un’area araba, distante dall’Europa geografica, c’è un enclave europea?

Il sionismo, il movimento che ha contribuito alla formazione dello Stato israeliano, nasce in Europa Centrale e Orientale nella seconda metà  del XIX secolo, «come movimento di risveglio nazionale, stimolato dalla crescente pressione sugli ebrei di quelle regioni ad assimilarsi totalmente o a rischiare una continua persecuzione».[2] Tra i padri fondatori del sionismo, Theodor Herzl, giornalista e scrittore ebreo ungherese, prospetta la creazione di una patria per gli ebrei «garantita dalla legge».[3]  Nel 1904, il movimento sceglie la Palestina come territorio in cui far sorgere lo Stato ebraico. Ciò che sfugge al movimento sionista, è che in Palestina abita già una popolazione con una identità ben definita (gli arabi palestinesi) che rivendica l’indipendenza dal dominio ottomano prima e da quello britannico dopo la Prima Guerra Mondiale. Così durante la Prima Guerra arabo-israeliana, nel 1948, l’espulsione dei palestinesi viene pianificata meticolosamente, ma circa 150.000 di loro rimangono sul territorio del nuovo Stato israeliano. Ci si è chiesto mai perché, a tutt’oggi, la “minoranza” più numerosa in Israele è quella palestinese? Una minoranza di circa 1.500.000 persone.

L’accademico israeliano Oren Yiftachel definisce l’attuale Stato di Israele un’etnocrazia[4], poiché non è lo Stato di tutti i cittadini, bensì del gruppo etnico/nazionale maggioritario: quello ebraico. I regimi etnocratici si adornano di alcuni orpelli democratici, di solito limitati alla sfera dei diritti civili e politici, ma mantengono la discriminazione più profonda e difficile da superare: quella che riguarda l’allocazione del territorio. In Israele, il territorio è concepito ad uso e consumo della popolazione ebraica, non solo di quella israeliana ma del mondo intero. Per un palestinese, anche se di cittadinanza israeliana, la stessa terra che fu privata ai suoi nonnidiviene un miraggio. Gli spazi si restringono, i permessi di costruzione vengono negati, le condizioni igienico-sanitarie peggiorano: il risultato è l’abbandono. Una politica volta a rafforzare il carattere ebraico dello Stato.

Significativo il confronto col Sud Africa, che ricordiamo dal 1964 al 1992 non ha potuto partecipare alle Olimpiadi ed è stato emarginato dal mondo sportivo grazie alla pressione delle nazioni africane. L’apartheid sudafricano era un sistema compiuto, l’obiettivo di una minoranza demografica e politica (anche qui di origine europea) che voleva sfruttare la popolazione indigena per il mantenimento del suo benessere. Anche Israele è uno Stato di apartheid: lo dicono tanti esperti delle Nazioni Unite, lo dice persino Alon Liel, ambasciatore israeliano in Sudafrica tra il 1992 e il 1994, ed ex-direttore generale del Ministero degli Affari Esteri, non chissà quale “facinoroso”. Ma, al contrario di quello sudafricano, l’apartheid israeliano è uno strumento, un sistema volto al superamento di se stesso: quando non ci saranno più palestinesi da discriminare, questo cesserà di esistere.[5] Uno strumento che per di più ben si inserisce nella nuova divisione in blocchi, Stati sovrani contro terroristi, e nella narrazione mainstream dello “scontro di civiltà” che piace tanto ai governi occidentali.

Israele 2013: Borini segna all'Olanda

Israele 2013: Borini segna all’Olanda

Nel 1992, in un periodo grigio come quello post-sovietico, in cui si può fare qualsiasi cosa a livello internazionale perché nascosto dallo sgretolamento dell’Impero (vedi gli interventi in Iraq e Somalia), Israele ha, quindi, ottenuto la sublimazione calcistica delle aspirazioni culturali: divenire uno Stato europeo. A partire dal 2001 la ricostituzione di un nuovo blocco avversario ne ha definitivamente legittimato l’appartenenza europea. Questo spiega l’apparente bipolarità dell’UEFA che mette in campo sforzi enormi per contrastare il razzismo dentro e fuori gli stadi (vedi il risalto dato ai casi di Boateng e Balotelli) e, dall’altra, organizza un evento calcistico in un paese dove la discriminazione e la segregazione sono istituzionalizzati. E si permette per bocca del suo presidente Michel Platini di bollare come faziose le proteste da parte della Federcalcio palestinese, che fanno leva anche sulla vicenda di Mahmoud Sarsak.[6]

Il quadro si intristisce ulteriormente se poi consideriamo che la FIFA, di cui l’UEFA fa parte, ha un disperato bisogno di introiti e di nuovi spazi in cui esportare il proprio prodotto, e dopo questi Europei sarà il turno dei mondiali in Russia, con buona pace del ricordo di Anna Politkovaskaja.

simone e integrazioni di federico

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[1] SAID Edward, “La questione palestinese”, pag.40, Il Saggiatore, 2001
[2]PAPPE Ilan, “La pulizia etnica della Palestina”, pag.22, Fazi Editore, 2008
[3]La garanzia della legge è la qualità necessaria a una patria per divenire Stato, in questo caso uno Stato ebraico Primo Congresso Sionista, citato in DAVIS Uri, “Apartheid Israel: possibilities for the struggle within”, pag.27, Zed Books, London, 2003
[4]YIFTACHEL Oren, “Ethnocracy: Land and Identity in Israel/Palestine”, University of Pennsylvania Press, Philadelphia, 2006
[5]Non a caso nel Sudafrica post-apartheid, tutti i cittadini sono uguali dinanzi alla legge, godono della più vasta gamma di diritti (civili, politici, economici, sociali e culturali), le strutture discriminatorie e segregazioniste sono state superate, ma quelle «associate alla proprietà e all’impiego del territorio sono state estremamente persistenti». CRISTOPHER A..J., “Atlas of Changing South Africa”, quarta di copertina, Routledge, London, 2001
[6]Fuori dal coro di chi difende la scelta della FIFA troviamo le richieste del BDS Movement e le iniziative messe in campo da giocatori di un certo calibro come Kanouté e Drogba


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