Nel 2005, tra l’altro, avevo percorso 6.000 chilometri negli Stati Uniti sugli autobus della Greyhound, per guardare in faccia l’America della gente che faticava, lontana dalle lobby e dai palazzi del potere.
Il turismo di massa all’italiana, fatto dall’abuso di selfie nella Grande Mela, è ancora convinto che Manhattan sia una sequenza patinata di Sex and City piuttosto che il bianco e nero della fotografia di Gordon Willis nell’omonimo film di Woody Allen?
A scanso di equivoci ho vissuto New York attraverso lo sguardo della periferia, sulla lingua di frontiera tra Queens e Brooklyn, fingendomi un italo-americano e facendomi adottare da una famiglia di immigrati argentini di Rigerswood.
Teresa, oggi un’arzilla signora ottantenne, sbarcò all’ombra della Statua della Libertà insieme ai suoi tre pargoli all’alba degli anni ’70, lasciandosi alle spalle l’Argentina schiaffeggiata dalla dittatura.
Osservando la figlia Cristina che preparava l’imbottitura per il tacchino del Thanksgiving e le fusa della nipotina Isabelle, ho ripensato a quanto gli immigrati abbiamo contribuito a raddrizzare le contraddizioni delll’America, liberandola in parte dal denigrante odio razziale, ferita incolmabile insieme al bagno di sangue del Vietnam.
Il mio giorno del Ringraziamento è andato oltre la parata del “consumismo folcloristico” di Macy, condivisa assieme a tanti newyorkesi tra la 77a strada e Central Park.
Forse sarebbe il caso che la Macy’s Parade, nata sulle ceneri di una festa degli immigrati, mandasse in pensione qualche pupazzone e qualche majorette di troppo per far sfilare i figli e i nipoti di tutti gli immigrati che hanno fatto quest’America, mattone dopo mattone.
A tavola con Teresa e la sua famiglia non mi sono sentito un abusivo, ma il coprotagonista di un momento di condivisione delle storie appartenenti a noi gente del Sud del mondo, tra Buenos Aires e Napoli.
La famigerata Festa del Ringraziamento sta diventando un rituale a cui gli americani si stanno disaffezionando perché, forse proprio come cantava John Lennon in Cold Turkey e in tempi non sospetti, “non riesco a vedere nessun futuro, nessun cielo, il tacchino freddo mi ha preso in fuga.” Siamo nell’America in cui la follia alla Trump riesce ad impugnare un microfono.