Si finisce a Recanati per un motivo solo: intrufolarsi nella casa natale di Giacomo Leopardi e farsi una sana scorpacciata di vecchie memorie scolastiche. Sulla piazza del Sabato del Villaggio c’è un caldo micidiale e all’orizzonte neanche l’ombra della “donzelletta che vien dalla campagna”. Le finestre del palazzo Leopardi sono chiuse e degli eredi che lo abitano neanche l’ombra. Non vedremo mai nessuna delle stanze, peccato. La scelta è obbligata: una mostra multimediale e la sterminata biblioteca dello “studio matto e disperatissimo”. Della prima ne possiamo fare a meno. La seconda è l’unica via di uscita per annusare qualcosa del grande poeta.
E’ tutto lì tra quei tomi, mentre la memoria si sbriciola tra i racconti della guida, che spesso si lascia andare a spasimi emotivi, quasi fosse un erede. Non basta lo scrittoio, non bastano quelle finestre per riportarci all’autenticità d Leopardi. Del resto proprio i recanatesi, da cui Giacomo se la diede a gambe, oggi farebbero di tutto per riaverlo lì. Le spoglie sono lontane, all’ombra del Vesuvio, sulle cui falde sbocciò la ginestra, il fiore che di Giacomo fece intravedere altro.
Lasciamo da parte i gossip letterari – tra i desideri repressi per Silvia (alias Teresa Fattorini) e il dispotismo del papà Monaldo – l’ingordigia di alcuni studiosi affossati tra il pessimismo storico e quello storico o l’apparente strafottenza attribuita alla maggior parte degli studenti italiani, vittime spesso di docenti indecenti, che sul poeta recanatese sapevano sputare fuori soltanto pappardella in saldi.
Giacomo Leopardi è molto più vicino ai giovani di quanto pensiamo e non sono le mura di quel palazzo a Recanati a testimoniarlo. Sono piuttosto alcuni versi, da “Il Sabato del Villaggio” a “Alla luna”, sbandieratori dell’anima popolare di una bella canzone di musica leggera. Eretico io? Ebbene sì.
Il tenore Luciano Pavarotti ha svestito la lirica dallo snobismo nei confronti della musica pop, perché non avrebbe potuto farlo il poeta recanatese più di un secolo prima? Alcune sue poesie anticipano i testi di una canzone intensa che sarebbe finita tra le man di un cantautore italiano nei primi anni ’70 del secolo scorso.
L’essenza di Giacomo Leopardi è solo lì, su quel colle, che gli ispirò uno dei componimenti più belli di tutti i tempi, l’Infinito, appunto, che sarebbe potuto essere nel nostro tempo la ciliegina sulla torta di un lirismo musicale alla Mogol-Battisti. Nell’Infinito persiste la voglia di evadere, anche da quel provincialismo di cui era annacquata la comunità recanatese.
Da quel momento Giacomo Leopardi non è stato più né prigioniero di quel palazzo né cittadino recanatese, ma viaggiatore dell’universo. E il visitatore incontra il poeta-viaggiatore proprio su quel colle, mentre all’orizzonte le nuvole rivendicano, nel nostro tempo volgare, il “naufragar m’è dolce in questo mare”.