Ritornarci dopo tutto questo tempo mi ha convinto ancora una volta che qui non si viene per denudare la vanità e la goffaggine del turista comune, ma per saccheggiare la memoria storica che ogni viaggiatore che si rispetti dovrebbe portarsi via dalla capitale francese.
Si beve una coppa di champagne e si sente aleggiare lo spirito di Edith Piaf; si scorre lo sguardo lungo le mura e sembra che fuori ci sia un lungo flashback su più di un secolo di storia cittadina: dai bombardamenti tedeschi del ’18 alla sommossa contro la corruzione parlamentare del ’34; dall’arrivo degli Alleati del ’44 al Maggio francese del ’68.
L’idiozia comune dell’italiano medio associa il palco del Moulin Rouge al cabaret fatto di tette e culi. Siamo a Parigi, non Italia, lontani dalla volgarità che ha fatto delle “veline” le piccole stellette della scena comune.
Dopo più di un secolo, il famoso locale di Pigalle sa darci ancora una lezione di stile. Si possono mettere in scena ancora spettacoli come Féerie, in cui un bel corpo femminile, tra stile, brio, musica e coreografie, può soccorrere la memoria. Il miglior modo per respirare l’atmosfera magica è assosciare la sgonnellata di un balletto al rumore delle bombe; le fantasticherie di un artista di strada alle fantasie dei film muti di Mèlies; la melodia di vecchie e nuove canzoni all’urlo delle nuove generazioni francesi, che non ne possono più di politici incapaci.
Ci sono locali che passano di moda; ce ne sono parecchi che svendono la loro anima per stare a passo con i tempi. Il Moulin Rouge non ha fatto nulla di tutto questo. Resta un tempio, anzi no “il tempio”, perché ha capito che il rumore dei passi della storia si può ascoltare anche dentro il perimetro di un can-can indiavolato.