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La casa in cui piombammo dopo via Ospedale era in via San Lucifero e il numero di telefono iniziava per 666… i riferimenti satanisti non è che si sprecassero, ma la casa suonava comunque come un po’ inquietante, soprattutto quando amici e colleghi te lo facevano notare in continuazione. The number of the beast era la canzone che ci dedicavano più spesso, da quando ci eravamo trasferite.
Il nuovo appartamento, oltre a rappresentare un passo nella nostra scalata verso l’alto (primo piano, finalmente!) aveva due fondamentali pregi: era in pieno centro ed era vicinissimo al nuovo appartamento di A. In qualsiasi momento, in preda ad un attacco compulsivo di shopping, o in astinenza da coccole, potevo raggiungere in due minuti netti, a piedi, la zona shopping della città e contemporaneamente la casa di A.
Aveva anche svariati difetti, però, per la maggior parte di tipo strutturale.
La casa di Lucifero aveva proprio la forma di un girone infernale: a pianta rettangolare, girava tutt’intorno alla tromba delle scale ed aveva nel bagno il punto di collegamento del girone, da una porticina si accedeva alla cucina, da un’altra si accedeva al corridoio dell’altro lato, così che potevamo tranquillamente correre per tutta la casa come fosse una pista da stadio per fare jogging. Effettivamente la casa era molto grande, una di quelle case antiche con le stanze enormi e i soffitti altissimi: la nostra stanza era talmente ampia e alta da poterci sponsorizzare un torneo di beach volley, ma così fredda che nelle pieghe degli infissi in legno seriamente provati dal tempo vivevano intere colonie di pinguini.
Faceva così freddo che d’inverno dovevo dormire con la cuffia in testa. Faceva così freddo che spesso accendevamo il forno a gas in cucina e ci mettevamo tutte di fronte come cinque vecchie zitelle davanti al caminetto. Faceva così freddo che anche accendere le stufe non serviva a nulla, dato che il calore si disperdeva immediatamente nei gironi più alti della casa. Non eravamo solo tirchie, è che proprio il freddo faceva parte del girone: evidentemente pur essendo all’inferno dovevamo essere capitate in un girone di peccatori cubani.
Il pavimento poggiava su antiche travi in legno che, in vita, prima di essere spedite all’inferno, dovevano essere appartenute a delle ziodde il cui peccato principale era la maldicenza: entravi in camera e cigolava l’armadio nella stanza affianco, andavi in cucina e vibrava lo specchio del bagno, non potevi fare un passo senza che qualcuno, dall’altra parte del girone, lo sapesse.
Il gruppo di ragazze era carino e spensierato, seppure non votato, se non per modo di dire, allo studio. A studiava giurisprudenza e aveva 30 anni, era evidente che se la stava prendendo comoda. B studiava lettere classiche, era perennemente impegnata nel tentativo di superare l’esame di latino ed era evidente che se la stava prendendo comoda. C. era siciliana, era in città per seguire il fidanzato finanziere e se la stava prendendo così comoda che tutt’ora non riesco a capire cosa stesse studiando.
Poi c’eravamo io e mia sorella.
Tutto sommato eravamo serene ed allegre. Pranzavamo spesso assieme, ci raccontavamo i fatti nostri e ci confrontavamo un po’ su tutto. La sera, soprattutto, ascoltavamo musica… volenti o nolenti. Al piano di sotto, infatti, Lucifero ci aveva piazzato il B.N. Blues, pub dalla vocazione jazz e blues, appunto, con saracinesca mai oliata che si chiudeva puntualmente alle 3 di notte svegliando chi aveva le finestre proprio sopra: io. Credo che il mio rapporto di amore-odio con il jazz si sia consolidato proprio in quegli anni: non puoi amare spassionatamente il jazz quando il giorno dopo hai un esame e non riesci a dormire perché il sottofondo tzzz tzz tzz tzz tzz tzz tzz tzz taa taaaaaaaaa ti esaspera. In compenso, all’angolo, a nemmeno cinquanta metri, c’era una pizzeria d’asporto buonissima. B soprattutto era una cliente abituale, telefonava e se la faceva portare a casa: mica poteva mollare i libri di latino per vestirsi e fare due, anzi, tre passi!
In realtà, secondo me, Lucifero non aveva scelto a caso la casa, il centro attraeva anche lui e, forse per questo motivo, aveva piazzato una sua adepta a poche centinaia di metri: a casa del mio A.
A., come dicevo, abitava in una delle principali vie del centro, strada pedonale con le vetrine che ti chiamavano delicatamente ma con fermezza e gli ambulanti che ti chiamavano in dialetto, quale che fosse, e con malagrazia. Proprio davanti a casa di A. si piazzava un mezzo tossico a vendere braccialetti e collane. Ogni volta che passavo mi fissava con sguardo lubrico (si, a voi oggi può sembrare incredibile, ma all’epoca avevo anche io i miei ammiratori!!) e, per questo, già più di una volta si era beccato commenti minacciosi da parte di A. o degli amici. Una sera, casualmente sull’Otto, io e mia sorella Erre rientravamo dalla mensa verso casa. Ci eravamo attardate a chiacchierare con degli amici e ormai si era fatta quasi mezzanotte. L’otto era semideserto e solo il rumore della solita rotolante bottiglia di birra vuota dimenticata da qualche tossico teneva sveglio l’autista. Noi eravamo sedute al centro e, quando ormai eravamo vicine a casa, ci siamo accorte che nell’ultima fila era seduto proprio il nostro amico ambulante tossico. Non so com’è, ma ho capito subito che eravamo un filino nei guai. Non volevamo fargli vedere dove abitavamo e non eravamo nemmeno sicure che ci stesse in qualche modo seguendo, allora abbiamo deciso di scendere una fermata prima per vedere come andavano le cose. Purtroppo non potevamo scendere senza dare troppo nell’occhio: l’autobus era praticamente vuoto e nel momento in cui abbiamo prenotato la fermata anche il tossico si è alzato ed è sceso dietro a noi. Abbiamo provato a camminare un po’ verso casa, fermandoci ogni tanto davanti a qualche vetrina per vedere se fosse sempre dietro di noi. Si, c’era. Abbiamo attraversato la strada, siamo tornate sui nostri passi e lui era sempre lì. Che fare? Stavamo per arrivare alla scorciatoia che prendevamo solitamente per arrivare a casa, buia, senza uscite e senza nemmeno un campanello a cui aggrapparsi in caso di panico, non era decisamente il caso! Alla fine, ormai in preda ad un attacco isterico, abbiamo deciso di metterci a camminare in mezzo alla strada, nella speranza che almeno la possibile presenza di qualche automobilista di passaggio potesse far desistere il tossico dal pedinamento.
Siamo state premiate, quella volta. Proprio mentre attraversavamo la strada è passato un nostro amico con quella che, al momento, mi è sembrata la macchina più bella, comoda e accogliente mai prodotta: una 126 bianca. Non credo di averne mai più visto dopo quella volta, ma ricordo di aver pensato che lui fosse un angelo sceso dal cielo e che Lucifero dovesse essersi distratto un attimo.
Forse in quel momento era impegnato con l’adepta che viveva nel palazzo di A. L’adepta era, in realtà, la proprietaria della palazzina: un androne buio e muffoso con una sorta di cantina che ospitava un calzolaio, un primo piano abitato da studentesse fuori sede ed un secondo piano con l’appartamento di A. ed i suoi colleghi e quello dell’adepta.
Lei poteva avere 70 anni, come 700 (e, date le frequentazioni con Lucifero, sarebbe anche potuto essere), era alta si e no un metro e cinquanta, aveva quel tipo di capelli bianchi che restano sempre un po’ venati di grigio, mai completamente candidi, e gli occhi celesti così trasparenti da sembrare vuoti, non sapevi mai se ti stava semplicemente guardando o se stava cercando di ipnotizzarti. Di sicuro nessuno, nemmeno per un attimo, l’avrebbe mai potuta scambiare per la nonnina dell’Ace (nonostante anche quella abbia qualcosa di diabolico, per me!). Talvolta A. ed i suoi colleghi erano invitati dall’adepta ad entrare in casa per il pagamento dell’affitto, altre volte era stato richiesto il loro aiuto per problemi con la caldaia o con la bombola del gas. Chiunque entrasse in casa sua raccontava di un’esperienza surreale da cui era difficile liberare gli incubi per parecchie notti a venire: la casa era quasi completamente buia, umida e soffocante e almeno questo, per quanto fastidioso, sarebbe anche potuto essere sopportabile… non fosse stato per le bambole… di porcellana… sparse per tutta la casa… con gli occhi sparsi per il mondo. Non ce n’era una con gli occhi sani: alcune non li avevano per nulla, alcune ne avevano uno solo, altre li avevano di colori diversi, altre ne avevano uno aperto ed uno chiuso... quelle peggiori, a sentire i racconti, erano quelle con gli occhi semichiusi (o semiaperti): quello sguardo a mezz’asta dava alle bambole un'intenzione diabolica e faceva sembrare davvero che potessero seguirti durante i tuoi spostamenti.
Ma le bambole non erano le sole a disturbare i sonni degli abitanti della palazzina. A quanto pareva l’adepta cantava. Non le canzoncine di Sanremo e nemmeno le nenie di paese. A sentire le ragazze che abitavano al primo piano le melodie richiamavano veri e propri lamenti funebri, vocalizzi e gorgheggi senza alcuna logica che avevano come unico scopo, sempre a sentir loro, quello di evocare Lucifero (che d’altronde abitava solo a pochi passi!). Io minimizzavo “Macchè” dicevo “si canterà il rosario, seguirà la messa”… “Satanica!!!” aggiungevano loro. Ma non riuscivano a convincermi. Io ridevo.
Fino a quando non l’ho sentita personalmente.
Un pomeriggio ero rimasta a casa di A. a studiare, la sua stanza aveva la finestra che dava direttamente sulla scala, proprio di fronte alla casa dell’adepta. Non so dire esattamente quando ho iniziato a sentirla, so che ad un certo punto ho iniziato a sentirmi infastidita, inquieta, poi ho iniziato a sentire un vago senso di paura, poi mi sono accorta di quello che stava succedendo.
Sembrava che a casa dell’adepta si fossero dati convegno Dario Argento e Claudio Simonetti per studiare la colonna sonora del prossimo film e che l’adepta stesse provando per loro le melodie: era una nenia ripetitiva ed inquietante, non aveva parole, o almeno non parole comprensibili, anche se sembrava che ogni tanto lei ripetesse alcune sillabe in maniera logica… era terrificante. Ho provato a cercare in quella nenia spaventosa qualcosa che potesse collegarla al rosario o alle classiche canzoni della Messa, ma, niente da fare… era ogni minuto più inquietante e insopportabile. Faceva venire la pelle d’oca. Ricordo che ho preso i libri con me e ho deciso di tornare a casa a studiare e che, una volta fuori, il calore del sole mi ha ridato vita e ho capito di aver bisogno di stare all’aria, al sole e non tra le mura di casa. È stata l’unica esibizione dell’adepta che abbia mai sentito. A quanto dicono, dopo un po’, le nenie si intensificarono, ma io non le sentii più: forse evitai accuratamente di trovarmi da sola in casa.
Vivemmo a casa di Lucifero per qualche anno. In quegli anni attraversai la crisi dello sbiennamento universitario e la superai, conobbi la mia amicasorella Emme con la quale imparai a studiare divertendomi da matti e sperimentai anche il senso dell’abbandono quando lei partì per l’Erasmus, lasciandomi a vivere e studiare sola e facendomi scoprire l’Acquario con tutte le conseguenze che ne derivarono.
Tutto tra le mura altissime della casa di Lucifero. Anche la fine della mia storia, ormai quinquennale con A. e l’inizio della storia con Lui, che di Lucifero, alla fin fine, aveva un po’ il sopracciglio.
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