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Case editrici, scrittori e surrealismo – parte IV

Creato il 13 febbraio 2013 da Sulromanzo

A cura di Alberto Gherardi, Alessandro Greco, Morgan Palmas

 

(leggi la terza puntata)

 

 

Alessandro: Beh, premesso che è quasi impossibile affrontare seriamente il discorso dell’autopubblicazione senza passare per la qualità, provo a risponderti.

Dal mio punto di vista l’autopubblicazione risponde ad una domanda del mercato: in Italia, come tu ben sai viste le cataste di manoscritti che ricevi, scrivono tutti. Gli editori non riuscirebbero mai a star dietro a questa inondazione selvaggia, ma c’è un altro fattore. Riprendendo quel che Alberto dice poco più su, agli editori, almeno ai grandi gruppi editoriali, non interessa nemmeno leggere i manoscritti degli aspiranti in cerca di qualcosa di buono. Ripeto: pubblicano nomi, non storie. Va detto però che se anche volessero, non potrebbero smaltire l’ammasso di cartacce ricevuto ogni giorno nemmeno lavorando 26 ore su 24, 9 giorni su 7.

Permettimi di inserire questa foto estremamente significativa. Si tratta dello scaffale di una piccola, minuscola casa editrice. Quelli che vedi sono i manoscritti degli ultimi 3 mesi. Immagina cosa succede in Mondadori o Feltrinelli, Rizzoli.

 

Case editrici, scrittori e surrealismo – parte IV

Tornando al punto. Il self-publishing permette agli “scrittori” di bypassare tutta la filiera ma, di conseguenza, di bypassare editing, correzione bozze, impaginazione decente. Insomma, come fai a non parlare di qualità in un discorso sul self-publishing? Vorrei anche precisare che ho visto racconti e romanzi distrutti dall’editing, e l’amico Alberto qui può dirti qualcosa in merito, ma anche di questo, immagino, parleremo più in là.

Per concludere, Morgan, il self-publishing non è un’alternativa valida, per me. E quando dico valida intendo dire che non è valida in tutti i sensi, né come sbocco né come valore letterario.

Qualcuno storcerà il naso e risponderà che John Locke si è autopubblicato ed ha venduto milioni di copie. Beh, siate curiosi e informatevi per capire chi c’è dietro. Non posso dirvi tutto io.

L’autopubblicazione, per dirla alla Michela Murgia è bricolage.

Per dirla alla Alessandro Greco, un self-publisher è uno che ha cucinato due volte per quattro amici ma si sente uno chef. Per carità, c’è chi pur non essendo chef professionista cucina divinamente, lo so. La passione è un motore micidiale. Resta fermo un punto, però: si tratta di un appassionato di cucina. Non di uno chef. Dal mio punto di vista, anzi, con oggettività, uno chef è uno che cucina tutti i santi giorni e che ha studiato per farlo ed ha superato molti test.

 

Morgan: Proverò a raccontarvi perché il self-publishing farà numeri strepitosi in pochi anni. E non intendo concentrare l’attenzione sui cavalli di razza, per quanto concerne le copie vendute, come, fra i pochi fortunati, John Locke o Amanda Hocking, bensì sulle tendenze. Non esistono soltanto aspiranti scrittori frustrati dai rifiuti delle case editrici, ci sono anche scrittori scafati, disincantati, abili nel capire la prima onda buona con i piedi sopra la tavola da surf; questi affrontano i cambiamenti come imprenditori, non come soldatini passivi con istinti gregali, gente che una volta messo il punto a un libro contatta correttori di bozze, editor, pubblicitari, grafici, web designer, gente che spende migliaia di euro per confezionare al meglio un prodotto editoriale. Soltanto così si vendono tante copie di un libro, soltanto così ci si presenta al meglio, soltanto così, senza arrovellare le minugie, si riesce a donare un senso al self-publishing. Per tali motivi prima scrivevo che siamo agli albori della nuova era, nel Regno Unito, in Australia o negli Stati Uniti, che sono sempre un passo avanti nelle tematiche editoriali, quando in particolare si parla di nuove tecnologie, si stanno sviluppando alcuni fenomeni che sto osservando da vicino. Mi confrontavo poche settimane fa con un editore statunitense su alcuni degli argomenti che stiamo affrontando. Vi lancio una provocazione. Le fotocopiatrici professionali stanno abbassando i prezzi sempre più e la consapevolezza degli aspiranti scrittori (o che hanno già esordito) sta aumentando, arriveremo al punto in cui una persona potrà seguire tutta la filiera del libro in proprio, pagando professionisti per affrontare il mercato con un certo successo di vendite. Sono sicuro che starete pensando: la qualità? La qualità in mezzo alla massa è cosa rara, come il grande calciatore che rimarrà nella storia è raro, come l’étoile che segnerà il mondo della danza. La qualità non è diffusa nell’editoria e pensare che debba diffondersi con la realtà che abbiamo ogni giorno davanti agli occhi mi pare quasi un’utopia. Forse sembrerò classista o troppo drastico, a me interessa poco che la qualità si sparga a cascata, ho fatto mia l’idea da anni che se tanti lettori desiderano leggere schifezze mi riguarda poco, è una scelta, come è una scelta guardare un programma spazzatura o un programma davvero stimolante alla televisione. E poi, che cosa è stimolante per una persona? Per me è stimolante leggere i russi dell’Ottocento, godo come fosse un orgasmo su alcune pagine di Nikolaj Leskov o di Ščedrin, ma quanto opinabile è questa visione? Sicuri che la qualità nell’arte, come nella scrittura, sia così universalmente condivisibile?

 

Alberto: Del tutto d’accordo su questo. E allargando per un attimo il discorso, cos’è poi questa benedetta qualità artistica? Un valore sempre e comunque oggettivo, o un valore soggettivo che diventa quasi oggettivo se a definirlo è una persona di prestigio indiscutibilmente riconosciuto?

Sino a qualche anno fa, in letteratura, c’era la Critica Letteraria (metto le maiuscole perché la boria che spesso traspariva da questi critici le merita, anche solo come ornamento tombale). Non era certo la panacea di ogni male, e avrete già capito che non mi era neppure simpatica, anche considerata l’evidente presenza fra le sue file di molti aspiranti scrittori che non ce l’avevano fatta ed erano stati costretti a virare sull’attività di valutazione dei libri altrui, anche grazie alle amicizie importanti che gli permettevano di godere di uno spazio, di una ribalta mediatica che dallo stretto punto di vista qualitativo non avrebbero meritato neppure come critici.

Però, al netto di questi spiacevoli soggetti persino peggiori dell’orrido D’Orrico, la presenza di una Critica Letteraria era importante: era un tentativo serio di stabilire cosa fosse la qualità letteraria di un testo, di un libro. La critica poteva stabilire un livello di riferimento, a cui poi il lettore poteva attingere a scatola chiusa o farsi una prima idea soggetta infine a verifica personale.

Case editrici, scrittori e surrealismo – parte IV
Da questo punto di vista una presenza molto positiva.

Ora cosa succede? La critica letteraria quasi non esiste più, il livello di discussione attorno ai libri è piuttosto basso, ridotto per lo più a un’auto-celebrazione fra autori e amici degli autori sui blog privati e sui social network. Nazione Indiana, per citare un celebre esempio, era partita bene ma quasi subito è diventata quel profluvio di narcisismo onanistico che ha allontanato quasi tutti i puri di cuore. Ci sono certo ancora esempi nobili come Sul Romanzo e altri siti, per certi versi è pregevole anche il lavoro dell’inserto La Lettura del Corriere. Ma a recensire i libri per la massa dei lettori ora ci sono anzitutto quel pagliaccio che eiacula settimanalmente su Sette Magazine, i blog privati e ancor più i siti di vendita libri online come Ibs, con i vari giudizi dei lettori; e quindi ad esempio cosa succede? Succede che la signora Maria, casalinga con la passione dell’internet, mette cinque stelline (il massimo) all’ultima pescata lacustre di Andrea Vitali, queste cinque stelline fanno media con le altre cinque stelline degli amanti delle beghine di paese che non si sono accorti che Andrea Vitali sta servendo la stessa identica pizza da quindici anni, olive comprese, e alla fine ognuno di questi giudizi non raffinatissimi di fatto ha lo stesso peso del giudizio che potrebbe dare uno studioso di letteratura, perché tanto quel che guarda il lettore potenziale acquirente è la media finale delle stelline, dove la massa ha sempre l’ultima parola, dove il numero prevale sulla finezza di pensiero. Così, visto che poi si arriva in automatico al discorso “Vende tanto quindi è bravissimo”,  Andrea Vitali risulta essere uno dei più grandi scrittori italiani contemporanei, mentre nessuno dice ad Andrea Vitali che per essere davvero un autore rilevante dovrebbe fare un romanzo importante e stare per un po’ lontano da Bellano e dalla fotocopiatrice.

 

Mi chiedo come sia possibile parlare in questo contesto di critica, e anche e soprattutto se abbia ancora un senso farlo. Per me sì, perché senza un qualcosa che stabilisca, o almeno tenti di stabilire, un livello di riferimento, mi pare impossibile poter parlare di condivisione della qualità. Ma temo che in realtà, il discorso qualità non interessi più a nessuno: molto semplicemente, la stragrande maggioranza della gente vuole quello che vuole la massa (il branco ha sempre il suo dannato fascino) a prescindere da quando valga, mentre il singolo va a cercarsi ovunque quello che vorrebbe. È la solita storia, che purtroppo poi va spesso a sfociare nelle accuse di snobismo verso chi critica ciò.

La qualità sappiamo che non è diffusa nell’editoria e sta sempre più scemando, quindi hai ragione quando dici che il self-publishing ha diritto di cittadinanza perché tanto peggio di così sarà difficile fare, e in ogni caso a quello ci stanno già pensando gli editori italioti, anche con i loro micidiali progetti di semi self-publishing come la (in)gloriosa Feltrinelli con la sua iniziativa “il mio libro”, proposte che mi paiono più che altro tentativi di circonvenzione di incapace in stile Vanna Marchi, visto quanto costano.  

Ma non solo. In questo panorama in cui l’assenza della condivisione di un discorso critico letterario è lampante, uscire dai canoni prestabiliti sarebbe di certo positivo, e in tal senso l’auto-pubblicazione è ultrapositiva. Con lo scrittore che si mette in proprio, in teoria si perderebbero quei filtri che fan sì che escano libri spesso indistinguibili l’uno dall’altro per storie e linguaggio.

E non ho dubbi sul fatto che un self-publishing di livello possa portare anche a prodotti notevoli per concetto e realizzazione. Rimango però perplesso sul fatto che possa essere questo il modo per salvare la letteratura.

Perché poi, volenti o nolenti, torniamo al punto di prima: più libri ci saranno in giro e più la confusione sarà maggiore e i cialtroni sguazzeranno.

E, ancor più, temo che questo mondo così veloce stia per sacrificare in definitiva la lentezza della lettura, soprattutto dei testi più profondi e/o raffinati.

Ci saranno anche col self-publishing autori mediocri ma abili a costruire un romanzo inutile però ben impacchettato, con un meraviglioso sito, un trailer accattivante come già qualcuno fa ora, persino una presentazione che sarà più simile a un raduno di fan. Venderanno bene cavalcando la tigre moderna, ma questo è fare letteratura? E uno scrittore bravo ma negato per queste cose che fine farà?

Non so se si capisca, ma sto riflettendo a voce alta, non sentenziando.

 

[La prossima puntata sarà online mercoledì 20 febbraio 2013]

 

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