Il caso di Alma Šabalaeva, la moglie dell’oligarca kazako Muchtar Abljazov espulsa dall’Italia, domina da giorni le cronache e ha rischiato di portare a una crisi di governo nel nostro paese. Le opposizioni, la stampa e molte ONG internazionali hanno criticato duramente il Governo e la burocrazia italiani per il loro contegno nella vicenda. Ma i politici non sono gli unici colpevoli. I media hanno avuto un ruolo parimenti nefasto.
Il giro di valzer
La politica estera dell’Italia moderna è la storia d’una lunga sequela di “giri di valzer” con cavalieri diversi, per usare la delicata e apologetica metafora di Bernhard von Bülow per celare i nostri frequenti voltafaccia. Anche nell’odierna vicenda Abljazov, il nostro paese non si è fatto mancare un piccolo rovesciamento di fronte, passando dalla supina collaborazione con le autorità kazake agli aperti rimproveri a Astanà – con ora la minaccia di espellere l’Ambasciatore Yelemessov – e alle professioni d’impegno per riportare in Italia Alma Šabalaeva e la figlia. Messo di fronte allo scandalo suscitato dalla vicenda, il Governo ha scelto di difendersi scaricando tutta la responsabilità sulla diplomazia kazaka e presentandosi quale parte lesa. Quasi come se il blitz alla villa romana fosse stato compiuto da teste di cuoio del paese centroasiatico, anziché da poliziotti italiani. Eppure, quello che il primo ministro On. Enrico Letta ha definito «l’inaudito comportamento» dell’Ambasciatore kazako, appare meno grave di quanto lo si voglia dipingere.
Può essere stato errato e irrituale rivolgersi per la questione direttamente al Ministero dell’Interno, anziché a quello degli Esteri; ma l’Ambasciatore Yelemessov aveva in ogni caso chiesto udienza direttamente al Ministro, e dunque a un collega di Gabinetto della titolare della Farnesina. Di più: in questo caso il Ministro dell’Interno è anche il Vice-Presidente del Consiglio, e dunque tecnicamente più in alto nella gerarchia decisionale rispetto al Ministro degli Esteri. Il fatto che a riceverlo sia stato non il ministro Alfano ma il suo capo di Gabinetto, è cosa che non è dipesa dai kazaki. Così come non è colpa dei kazaki se il Gabinetto non ha trasmesso a dovere la comunicazione al Ministro – la tesi del Governo – o a maggior ragione se il Ministro ha saputo e anche solo tacitamente e per distrazione avallato. Le insistenze dell’Ambasciata kazaka sui funzionari del Viminale e della Polizia per ottenere la cattura e l’estradizione della famiglia Abljazov possono essere pressanti quanto si vuole, ma le autorità italiane non erano costrette a soddisfarle se ritenevano di non doverlo fare. Getta davvero discredito sul nostro paese l’ammissione da parte del Governo di non essere in grado di controllare ciò che avviene nel suo territorio: ma tale increscioso fatto appare più colpa di noi italiani che d’un paio di kazaki i quali si sono limitati a esprimere le loro posizioni e le loro richieste.
La sensazione è che il Governo stia distogliendo le accuse da sé rivolgendo l’opinione pubblica contro il Kazakhstan, e a tal fine pare pronto a giungere fino a una pericolosa rottura con un paese non trascurabile per la nostra economia e col quale a oggi non avevamo mai avuto problemi politici di sorta. Preponderante è stata la spinta data dall’opinione pubblica e, tramite essa, dai media. Si osservi per contrasto la recente reazione – o forse sarebbe meglio dire “non reazione” – all’esplodere del caso Datagate, ossia alla scoperta di un capillare sistema di spionaggio informatico messo in piedi dagli USA e che interessa anche l’Italia. Il fatto che le comunicazioni dei cittadini, delle imprese e dei funzionari italiani siano sistematicamente spiati da un paese straniero rappresenta, ad avviso di chi scrive, motivo di preoccupazione ben più grave di un singolo caso di presunta manipolazione del nostro apparato poliziesco da parte dell’Ambasciata kazaka. Eppure, se in quest’ultimo caso ci si sta spingendo sull’orlo della rottura diplomatica, nel primo ci si è limitati a una generica “richiesta d’informazioni”, stemperata per giunta dalla rassicurazione che non vi saranno effetti sulla nostra alleanza con gli USA.
Un Nelson Mandela con gli occhi a mandorla?
Ma chi è Muchtar Abljazov, l’uomo al centro dello scandalo che ha messo in difficoltà il governo italiano e i rapporti italo-kazaki? La nostra stampa si limita in genere a qualificarlo come un “dissidente”. La trasposizione sul piano giuridico d’un termine giornalistico ha pure stimolato delle tesi difficili da giustificare. Si è biasimata la polizia italiana per non aver verificato che Abljazov fosse in realtà un “dissidente”, ma è d’ardua comprensione come e in nome di cosa ciò sarebbe dovuto avvenire. Non risulta nel codice italiano la figura giuridica del “dissidente”. Esiste semmai l’istituto giuridico dell’asilo politico, ma esso non è stato richiesto né da Abljazov né dai suoi familiari, come è stato confermato dall’indagine interna dello Stato italiano. Di più: la signora Abljazova non ha fatto cenno alla polizia italiana dei presunti rischi che avrebbe corso se rimpatriata (questo fatto è stato riconosciuto anche dai suoi avvocati).
Marco Gerbi, professore di diritto internazionale, in un illuminante articolo su “AffarInternazionali”, ha chiarito come nel caso in esame siano state formalmente rispettate le procedure previste dalla legge italiana per l’espulsione. La Corte di Giustizia europea ha stabilito che la situazione dei diritti umani in Kazakhstan non è tale da proibire gli allontanamenti verso tale Stato, e anzi lo scorso febbraio ha avallato l’estradizione d’una persona di fiducia di Abljazov (caso Yefimova vs. Russia). Per quanto riguarda la figlia minorenne della signora Abljazova, essa non è stata espulsa – la legge italiana impedisce l’allontanamento di minori – ma è stata data la possibilità alla madre di scegliere se portarla con sé o affidarla alla sorella rimasta in Italia.
Torniamo alla figura di Muchtar Abljazov. Egli appartiene alla categoria dei cosiddetti “oligarchi”: cittadini sovietici che, dopo il crollo dell’URSS, hanno rapidamente acquisito enormi ricchezze, avvantaggiandosi soprattutto delle privatizzazioni del patrimonio pubblico. La loro accumulazione originaria di capitale è spesso caratterizzata dall’opacità, cosa che ha spinto la magistratura locale a indagare e condannare diversi di loro. Nel 1997 fu nominato dal presidente Nursultan Nazarbaev alla guida della compagnia energetica kazaka, e l’anno seguente fece il suo ingresso al governo nel ruolo di ministro per l’Energia, l’Industria e il Commercio. Pochi anni dopo, però, Abljazov si rivolse contro il suo mentore politico. La magistratura kazaka cominciò a indagare su di lui e nel 2002 ricevette una condanna a sei anni di prigione. Scontò soltanto sei mesi, graziato da Nazarbaev a patto che rinunciasse alla politica. Abljazov già nel 2005 divenne direttore della Banca BTA, una delle maggiori del Kazakhstan.
La riabilitazione di Abljazov durò poco, anche perché ricominciò a sostenere finanziariamente l’opposizione. Inoltre, nel 2009 lo Stato kazako dovette intervenire per salvare la BTA dal fallimento. Abljazov fu dimesso e il nuovo management dell’istituto di credito avviò una causa con l’ex direttore presso il foro di Londra, accusandolo d’appropriazione indebita. Curiosamente, tra i testimoni della difesa chiamati da Abljazov vi era anche Ruslan Tsarni, lo zio dei due futuri attentatori della strage di Boston. Nel novembre 2012 il tribunale di Londra ha riconosciuto Abljazov come colpevole, condannandolo a risarcire alla BTA oltre un miliardo di sterline più gl’interessi. Dal 2009 l’oligarca kazako si era trasferito a Londra, dove ha comprato una villa con nove camere da letto e una tenuta di 40 acri, comprensiva di campo da polo e laghetti artificiali per la pesca alla trota. Benché avesse ottenuto asilo politico in Gran Bretagna, la pesante condanna pecuniaria indusse Abljazov a lasciare Londra: si crede che oggi, dopo essere passato per Roma, si sia rifugiato in Svizzera.
L’intransigenza democratica
La contesa tra idealisti e realisti è annosa e impossibile da risolvere. Ognuna delle due parti continuerà a trovare argomenti per sostenere la propria tesi. In questo caso specifico, tuttavia, bisogna porsi la domanda se ci si trovi di fronte a un innocente perseguitato da un tiranno per la sua dissidenza, o a uno spregiudicato e controverso oligarca che ha cercato di estendere il suo potere sulla politica. Un Nelson Mandela con gli occhi a mandorla, oppure un Boris Berezovskij kazako? Simpatizzare col primo sarebbe inevitabile, col secondo difficile. E se venisse meno quella simpatia umana per la figura di Abljazov, sarebbe più facile affermare le ragioni del pragmatismo. In una lotta di potere tra il padre e padrone d’uno Stato e un aspirante padre e padrone del medesimo Stato, sarebbe la ragion pratica a prevalere. E, nel momento in cui l’Italia ha rapporti cordiali e vantaggiosi con l’attuale padrone del Kazakhstan, avrebbe ben pochi motivi per schierarsi col suo rivale.
Un miliardario le cui fortune hanno oscure origini, con un passato di legami con forze non esattamente democratiche, che scende in politica e cerca di sfruttare la propria ricchezza e il controllo dei media per prendere il potere assoluto nel paese. È il ritratto che i detrattori potrebbero fare di Abljazov. Ma è anche il ritratto che molti detrattori farebbero in Italia d’uno dei personaggi politici più in vista del nostro paese. Non è qui il momento di pronunciarsi sulla correttezza di queste descrizioni. Ciò che si vuol notare, è come al momento coloro che condividono quel ritratto negativo del politico italiano e ne vorrebbero la condanna giudiziaria, sono gli stessi che più hanno a cuore le sorti di Abljazov. Una sorta di schizofrenia che spinge gl’italiani a valutare con metri diversi situazioni analoghe qui o all’estero.
Vi è un’ulteriore questione che andrebbe affrontata: la visione ideologica della democrazia e della sua esportazione. Gli assertori di questa posizione si distinguono spesso per la loro intransigenza. In tempi recenti è tristemente nota la tesi secondo cui la democrazia andasse esportata anche con la forza, e i risultati che ne sono derivati con immani spargimenti di sangue pagati quasi esclusivamente dai popoli che dovevano essere “liberati”. I sostenitori della democrazia “tutta e subito” in ogni angolo del mondo mancano di visione storica e sono incapaci di concepire la diversità in chiave non totalmente negativa. La realtà è che nel mondo vi sono culture e società differenti, non tutte parimenti attratte dalla democrazia così come concepita in Occidente e, soprattutto, non universalmente pronte a sostenerla. La democrazia, anche nella nostra civiltà, rappresenta uno stadio raggiunto con un’evoluzione plurisecolare, passata per riforme e controriforme, guerre di religione, tiranni illuminati, rivoluzioni e massacri.
In Europa Occidentale secoli di educazione centralizzata, uniformazione legislativa, ma anche repressione, assimilazione forzata e pulizia etnica, consegnarono un quadro adatto all’istituzione di Stati nazionali sufficientemente solidi e coesi. In Europa Centro-Orientale, invece, venuto meno il dominio dei grandi imperi esterni, la realtà di miscuglio etnico impedì la pacifica formazione di Stati nazionali e democratici: l’instaurazione di dittature, la persecuzione delle minoranze e gli atti di terrorismi furono all’ordine del giorno. Solo dopo il ritiro delle truppe sovietiche hanno potuto affermarsi governi democratici nel senso occidentale del termine, e talvolta a costo di gravi tragedie come la guerra jugoslava. Si tratta oltretutto di esperimenti troppo recenti perché se ne possa già dare un giudizio definitivo. Le accuse di regressione autoritaria rivolte all’Ungheria inducono a mantenere sospeso il giudizio.
Il Kazakhstan è un paese multi-etnico senza alcuna storia statuale propria. Si potrebbero trovare innumerevoli spunti per criticare l’attuale regime e il suo capo, Nursultan Nazarbaev. Ma quando lo si fa, bisognerebbe porsi anche il quesito se un Kazakhstan perfettamente democratico, come sarebbe piaciuto alla nostra sensibilità occidentale, sarebbe sopravvissuto fino a oggi, senza guerre civili, massacri etnici, disastri economici. Ciò vale per il Kazakhstan e per molti altri paesi. Negli ultimi giorni la stampa ha sollevato in tono scandalistico la questione di Romano Prodi, consigliere del presidente Nazarbaev. Ma accompagnare questi paesi nel loro percorso di consolidamento e maturazione non potrebbe essere un modo molto più efficace di promuovervi la democrazia, piuttosto che emarginarli come pariah, disprezzarli come arretrati, e magari affrontarli come nemici?
Sono domande cui varrebbe la pena la nostra opinione pubblica cercasse una risposta. Perché sdegnarsi quando giornali e televisioni lo richiedono è facile, ma costruire un mondo giusto, equilibrato e in pace impone uno sforzo assai maggiore. E qualche compromesso.