Il Ministro della Giustizia ha ricevuto la notizia di una detenuta a rischio e ha segnalato il caso al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Ha fatto bene o ha fatto male? Difficile da dire, e nel Paese delle mille contraddizioni è difficile dirlo di molte altre cose, ragion per cui non spenderò una parola sull’opportunità che lei rassegni le dimissioni o meno. Di sicuro, il (non) “caso della Cancellieri” è una perfetta sintesi del regresso socioculturale che da vent’anni contrassegna la cosiddetta Seconda Repubblica, e per due motivi.
In primo luogo, l’affaire Cancellieri (riassunto qui in dieci punti) certifica l’impossibilità nel nostro Paese di affrontare un dibattito pubblico senza schierarsi in due opposte tifoserie, che poi sono sempre le stesse: da una parte gli ultrà del centrosinistra e dall’altro quelli del centrodestra, in teoria divisi su tutto e in pratica tutti col naso all’insù verso la stella polare di Berlusconi.
Attraverso la discolpa per l’ex prefetto di Bologna, i berluscones (falchi, colombe o polli che siano)agognano l’indulgenza verso il loro Grande capo, inventando un parallelismo tra i due episodi semplicemente inconcepibile. Qualunque persona sana di mente sarebbe capace di distinguere tra un Ministro che sollecita un intervento per una detenuta a rischio della propria vita e un Primo Ministro che ottiene la liberazione di una prostituta arrestata per furto millantando una parentela con un Capo di Stato estero. O almeno, in un Paese normale chiunque lo sarebbe. Già, in un Paese normale.
Nessuno poi sembra cogliere una stridente incoerenza. In marzo, nel corso delle convulse trattative per la formazione del governo Letta, emerse l’evidente sgradimento del Pdl per la figura della Cancellieri. La ragione? Aver sciolto ben 33 comuni per infiltrazioni mafiose, quasi tutti amministrati proprio dal centrodestra, tra cui quello di Reggio Calabria - il più grande comune mai sciolto per mafia – retto da un sindaco Pdl, erede del governatore in carica Scopelliti. Oggi invece i pidiellini sono tutti con la Cancellieri. E’ la (mala) politica, bellezza.
Inoltre, nessuno nota che il caso Cancellieri è noto grazie a una telefonata intercettata dalla procura di Torino, una telefonata che non avremo mai dovuto nemmeno conoscere. Perché si tratta diun’intercettazione telefonica penalmente irrilevante, che per tale ragione non doveva essere trascritta né tanto meno pubblicata dalla stampa. Ma nessuno ci ha fatto caso. Negli ultimi anni si è fatto un gran parlare di intercettazioni solo perché inerenti alle vicende private di Berlusconi, dimenticando che l’intercettazione, codice di procedure penale alla mano, è un mezzo di prova. Dovrebbe servire al processo per dimostrare una colpevolezza, non ai giornali per vendere un paio di copie in più. Invece negli ultimi anni è diventato un mezzo di ricerca della prova, andando ben oltre i limiti consentiti dalla legge, e infine un mezzo di ricerca dello sputtanamento. Ma nessuno ci fa più caso. Anzi, chi nota queste anomalie finisce pure per essere assalito dagli ultrà del centrosinistra.
Inutile stupirsi. Ultimamente sembra diventato impossibile discutere di un tema senza dover per forza buttare tutto in vacca. La riflessione è bandita, e dunque largo agli slogan e alle (pseudo) ideologie; unico mezzo possibile per sintonizzarsi sullo stile espressivo (e cognitivo) dell’italiano medio.
Passiamo al secondo aspetto, a mio modo di vedere il più avvilente. Proviamo a farci delle domande, come quelle che il direttore del PostLuca Sofri si pone sul suo blog. Domande che a me ne fanno sorgere un’altra: in Italia un detenuto affetto da un problema deve per forza invocare il Ministro, senza che l’amministrazione penitenziaria contempli altre figure intermedie (es. il direttore del carcere o il personale di servizio) a cui rivolgersi? La Cancellieri ha più volte ribadito di essere intervenuta in oltre cento analoghi casi in tre mesi, ma i detenuti ospitati nelle carceri sono molti, molti di più (ufficialmente 65.891, ossia 18.851 in più rispetto ai 47.000 posti disponibili). Quasi nessuno dei quali con il numero privato del Ministro in rubrica.
Una volta si telefonava al potente amico per avere un favore. Non è il caso di Giulia Ligresti: per lei la scarcerazione era un diritto, stante le sue drammatiche condizioni di salute di allora. Lo stesso diritto che in teoria spettava e spetta a tutti i detenuti in analoghe condizioni. Un diritto, non dimentichiamolo, è una situazione di vantaggio che spetta a tutti; un privilegio, invece, è roba di pochi. Ma se la Giustizia italiana - vuoi per deficienze amministrative, burocratiche, finanziarie, ecc. – non è in grado di assicurare al sig. Rossi, lo stesso trattamento riservato a Giulia Ligresti, il riguardo della Cancellieri verso quest’ultima rimane un diritto o diventa piuttosto un privilegio?
L’Italia è ormai un Paese impoverito, prostrato da una crisi che la politica riesce a comprendere e figuriamoci ad affrontare, retto da una classe politica miope e autoreferenziale, incapace di qualunque pensiero originale o anche solo di empatia nei confronti di una popolazione disincantata e sempre più alla deriva. Un Paese giuridicamente e finanziariamente non più in grado di assicurare quei diritti inviolabili che l’art. 3 della Costituzione assegna a ciascun cittadino senza distinzioni di sorta, in cui si arriva a selezionare i beneficiari dell’intervento pubblico nell’impossibilità di provvedere ai bisogni di tutti. Selezione che, ovviamente, avviene in base alle conoscenze.
Se ieri l’intercessione di un potente garantiva dei privilegi, oggi invece basta appena a salvaguardare i diritti fondamentali della persona. Siamo caduti veramente in basso. L’imbarbarimento politico, amministrativo e culturale della nostra società ha fatto sì che in Italia perfino i diritti di tutti diventassero i privilegi di pochi.
E’ questa la riflessione più amara che il caso Cancellieri ci lascia.