La Chiesa ortodossa serba fu la prima, in ordine temporale, a fare il suo ingresso nel periodo che si concluse con la disgregazione della ex Jugoslavia: erano gli anni della dittatura di Milosevic ed il clero ortodosso decise di cavalcare la tigre del nazionalismo serbo, forse per recuperare quei consensi che aveva perso a causa della impostazione ateista ed antireligiosa del regime di Tito (all’epoca circa l’80 % dei serbi non era battezzato). Un atteggiamento, quello del Patriarcato serbo, che rappresenta un'eccezione nel mondo ortodosso, le cui gerarchie, a cominciare da quella russa, sono generalmente più restie di quelle cattoliche ad interessarsi degli affari temporali. L’evento che segna in modo inequivocabile la presa di posizione della Chiesa ortodossa avviene il 1° agosto 1994, quando l’autorevole Patriarca di Belgrado, Pavle si reca nella cittadina di Dalj, dove erano stati massacrati diversi croati (da 40 a 150, a seconda delle fonti), per celebrare una solenne messa in memoria delle vittime serbe delle violenze degli ustascia durante la seconda guerra mondiale e per consacrare un vescovo. E lo stesso Pavle si recò nel 1994 in Bosnia a Pale, la capitale dei serbo-bosniaci, per esprimere la solidarietà al governo di Karadzic e condannare il governo di Milosevic che, sotto la pressione della comunità internazionale, aveva deciso di interrompere i rapporti politici ed economici con i connazionali d’oltre Drina.
Le parole pronunciate in quella occasione dal patriarca meritano di essere ricordate: “Con il pilatesco lavacro delle mani nel sangue dei fratelli in pericolo, sotto la pressione dei potenti del mondo, nulla verrà salvato, ma si perderà la faccia e l’anima e la dignità personale e nazionale”. E Pavle si recò di nuovo a Pale nel 1995, per esprimere di nuovo il suo appoggio al regime di Karadzic e quindi al suo progetto di conquista manu militari della Bosnia o di buona parte di essa: “Esiste una guerra giusta in cielo”, disse il patriarca in quella occasione, “perciò esiste anche in terra”. Una presa di posizione esplicita, quella della Chiesa ortodossa serba che le valse l’appellativo di “Armata jugoslava dello spirito“, coniato dall’acuto scrittore serbo Mirko Kovac. A partire dalla fine delle guerre, e quindi dalla fine del millennio scorso, la Chiesa ortodossa serba si ritrae progressivamente dall'agone politico. Una delle cause di tale mutamento di rotta è sicuramente rappresentata dalla scomparsa dalla scena di Pavle, ultranovantenne e molto malato, e quindi non più in grado di svolgere le sue funzioni, tanto da essere sostituito nell’esercizio delle stesse dal Metropolita Amfilohije. A ciò si aggiunga che l’amaro epilogo delle guerre civili e la presa di distanza di parte della popolazione e quindi di parte dei fedeli serbi dalle posizioni nazionaliste consigliavano alle gerarchie ortodosse un atteggiamento più cauto, meno impegnato politicamente e più concentrato a sostenere spiritualmente la comunità serba, duramente provata sotto il profilo economico e psicologico dalle vicende belliche.
La Chiesa cattolica croata entra in campo nel 2005, non per sua iniziativa, ma a seguito di una precisa accusa mossale proprio della Del Ponte, che sosteneva che uno dei principali ricercati del Tribunale, il generale croato Ante Gotovina, si nascondeva in un monastero francescano in Croazia. Convinta di tale tesi, la procuratrice si reca anche a Roma per chiedere la collaborazione dello Stato della Città del Vaticano al fine di ottenere la consegna di Gotovina, ma si scontra, a suo dire, con un atteggiamento ostruzionistico delle alte gerarchie della Santa Sede: l’episodio viene raccontato dalla Del Ponte nel suo libro "La caccia" e in una intervista al prestigioso Daily Telegraph. Appena un mese dopo Gotovina viene arrestato, non in un monastero croato, ma in un posto molto lontano dalla Croazia, le isole Canarie, e sorprende che la Del Ponte non abbia sentito la necessità di scusarsi per la gratuita ed infondata accusa rivolta alla Chiesa cattolica croata. Con la cattura di Gotovina la Chiesa cattolica croata e la Del Ponte escono dallo scenario della dissoluzione della ex Jugoslavia, da cui la Chiesa ortodossa serba, come si è visto, si era già ritirata da qualche anno. Vero è che il mandato della Del Ponte cesserà solo nel 2007, ma negli ultimi anni trascorsi alla guida della Procura il magistrato svizzero, nelle more nominata anche al vertice della Procura del Tribunale internazionale per crimini commessi nel Ruanda, si occuperà quasi esclusivamente di processi e quindi non interagirà più con le istituzioni religiose e politiche degli Stati sorti a seguito della fine della Jugoslavia.
Tutti gli attori della vicenda che abbiamo ricostruito, dopo un lungo letargo, ricompaiono nel quadro politico ex jugoslavo a seguito della sentenza di assoluzione dei generali croati Gotovina e Markac, pronunciata dalla Corte di Appello dell’ICTY (come è noto in primo grado i due erano stati condannati a pesanti pene detentive) novembre 2012. Se è vero che la Chiesa cattolica croata nel 2005 si era rivelata del tutto estranea alle accuse, mossele dalla Del Ponte, di proteggere Gotovina, è altrettanto vero che il comportamento tenuto dalla curia di Zagabria in occasione dell'assoluzione dello stesso generale da parte della Corte olandese, non può essere definito discreto. Al contrario, i vertici dell’episcopato croato hanno dato all’evento una connotazione religiosa, celebrando in onore di Gotovina e Markac un te deum di ringraziamento nella cattedrale di Zagabria. Un atteggiamento che ha acuito il senso di frustrazione dei serbi per una sentenza che essi sentono come profondamente ingiusta e che ha avuto, inevitabilmente, un riscontro da parte della Chiesa ortodossa serba, il cui nuovo Patriarca, Irinej, ha a sua volta officiato una messa per le vittime serbe delle guerre civili jugoslave, a cui ha assistito anche il primo ministro Dacic, e nel corso dell’omelia ha affermato che “l’ICTY è un Tribunale politico, il cui obiettivo è proclamare innocenti i colpevoli e colpevoli gli innocenti”. Il commento di Irinej ricalca fedelmente quelli del presidente serbo Nikolic e dello stesso Dacic, ma può essere affrettato dedurre da tale uniformità di valutazioni una nuova deriva nazionalistica della chiesa ortodossa.
La presenza della Del Ponte in questo deja vu ha un significato del tutto diverso rispetto al passato. Il magistrato, per il fatto di avere perseguito diversi personaggi serbi e soprattutto per il fatto di avere incriminato ed ottenuto la consegna di Milosevic, era forse, un decennio fa, la figura più invisa ai serbi. Prova di tale avversione erano le frasi sui muri di Belgrado, ostili al giudice svizzero scritte, curiosamente, in italiano: in Serbia infatti molti erano convinti che la Del Ponte, a causa del suo cognome, fosse di nazionalità italiana. E d’altronde anche chi scrive è stato testimone diretto di tale avversione: nel 2008 infatti mi trovavo in un locale pubblico a Belgrado ed alcuni avventori ritennero di dovere criticare il libro che stavo leggendo, o meglio l’autrice dello stesso, appunto la Del Ponte (il libro era “La caccia” ed ha per oggetto le indagini svolte dal giudice quale procuratore dell’ICTY: solo nel 2012 il libro è stato tradotto in serbo con il titolo Gospodja Tuziteljka, ossia “Signora Procuratrice”). Nonostante tali precedenti frizioni, la posizione dei serbi e quella del Del Ponte, una volta nemici irriducibili, vengono a coincidere in occasione dell'assoluzione in appello di Gotovina. La Del Ponte, che aveva sostenuto l’accusa nei confronti del generale croato nel processo di primo grado ottenendone la condanna ad una lunga pena detentiva, viene chiamata in causa dai media serbi, che le chiedono di commentare la sentenza d’appello. Ed il magistrato si dichiara sorpreso dell'esito del giudizio di secondo grado, di cui tuttavia si riserva di esaminare le carte per esprimere un giudizio più approfondito, e conferma comunque la propria convinzione circa la colpevolezza del generale croato.
La teoria vichiana dei corsi e ricorsi storici, come si vede, trova applicazione anche nel contesto serbo, ma quello che sorprende, e che conferma in un certo senso il carattere assolutamente particolare delle vicende dell'ex Jugoslavia, è la ciclicità con cui da quelle parti gli eventi si ripetono e condizionano, si potrebbe dire forse ossessionano visto il richiamo sistematico delle vicende del passato al tempo delle guerre civili, il presente.
[*] Riccardo De Mutiis, esperto di relazioni internazionali, conoscitore della realtà balcanica anche per aver partecipato a diverse missioni patrocinate da istituzioni internazionali. Passaggio a Sud Est ha già pubblicato diversi suoi pezzi: per ritrovarli clicca qui.