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Cassandra: la crisi annunciata

Creato il 07 febbraio 2012 da Ilcasos @ilcasos

A posteriori, ogni crisi può apparire come un default annunciato, come lo scoppio di una bolla destinata a scoppiare. Tuttavia, ci si riserva un compito troppo facile e inutile se, col beneficio di uno sguardo retrospettivo, ci si limita a constatare che tutte le bolle prima o poi scoppiano: bisogna poter spiegare come ciascuna bolla, nello specifico, abbia potuto formarsi, senza che nessuno degli operatori implicati la percepisse, o addirittura la potesse percepire, come tale.
Massimo Amato, Luca Fantacci, 2009[1]

Salvadanaio tripla A

1. Che cos’è la crisi?[2]

A questa domanda, la maggior parte di noi è oggi in grado di dare una risposta. E non perché, all’improvviso, siamo tutti diventati esperti d’economia, ma perché da quasi quattro anni la crisi, parafrasando quanto Nietzsche diceva del nichilismo, è diventata l’ospite scomodo delle nostre esistenze. Almeno dall’autunno “nero” del 2008, infatti, siamo quotidianamente bombardati da opinioni e commenti esperti su tutti i giornali, sulle tv e sul web. Ma non è solo per questo che conosciamo il significato reale di quel termine, anzi: c’è chi sostiene che ne sappiamo poco e niente[3]. Possiamo non essere in grado di esprimerlo in termini tecnici, questo è vero, ma siamo tutti perfettamente coscienti che, qui o altrove, ci sono stati fallimenti, risparmi andati in fumo, ipoteche e poi cassa integrazione, ristrutturazioni aziendali, licenziamenti. Ma che cos’è la crisi?
Usiamo l’immaginazione. Fingiamo che la popolazione mondiale, nella sua immensa complessità e stratificazione, fosse fisicamente contenibile in una sola città e che questa città fosse normalissima ed enorme. Negozi, bar, musei, banche, industrie, polizia, piazze, palazzi e persone che vanno e vengono. Centinaia di migliaia di occupazioni e preoccupazioni diverse; vita e morte che si susseguono secondo modelli vecchi o nuovi che tutti noi, comunque, consideriamo la semplice normalità. Bene. Eravamo tutti lì, quando un giorno è arrivata questa crisi. Una voce di corridoio, molte voci di corridoio, voci estremamente preoccupate di gente che usa non preoccuparsi mai e, allo stesso tempo, altrettante voci che minimizzano. Per alcune importanti banche e aziende questo termine ha preso subito un altro significato, molto più chiaro: fallimento. Per altre, invece, un deus ex machina è sceso e ha detto: salvataggio (sì, c’era anche lo Stato in quella enorme città immaginaria).
Per un tempo sufficientemente lungo e per la maggior parte di quei cittadini, la crisi è stata qualcosa di lontanissimo dalla vita di tutti i giorni. Un brusco rallentamento della produzione e riproduzione dei mezzi di sostentamento che, comunemente, chiamiamo “economia”? Nulla di tutto ciò. Ma intanto erano arrivate voci anche di chi aveva perso (tanti) soldi, di chi si era buttato sotto a un treno e di chi non aveva più il lavoro. Ma, in fondo, non è questo il genere di cose che capitano nella “vita di tutti i giorni”? E che motivo c’era, dunque, di chiamarla crisi e non il normale ciclo della vita? È arrivato, infine, un momento (o una serie non simultanea di momenti) in cui nessuno, in nessun quartiere di quella città, ha più potuto evitare di constatare la realtà di quella parola e i suoi numerosi corollari che gli esperti hanno iniziato a chiamare ricadute sull’economia reale.

La crisi è reale, e agisce sulla realtà: provoca sofferenze, disordini, reazioni. La crisi, inoltre, esiste nei discorsi esperti, in analisi dettagliate e discordi che cerchie ristrette di persone portano avanti. La crisi esiste infine come enigma, quesito, all’interno della sfera pubblica. Si manifesta come minaccia prossima ed evidente, e al contempo come evento spettrale, d’altri mondi.[4]

Ciò che stupisce, a guardare retrospettivamente i fattori che hanno hanno portato a questa crisi, è il fatto che nessuno si sia accorto di niente o abbia fatto poco (o tardi). Alcuni analisti, in realtà, avevano segnalato da tempo i rischi insiti in alcune scelte di fondo della politica economica degli ultimi trent’anni o più. Solo alcuni di loro sono poi diventati famosissime Cassandra dell’economia che, come la sacerdotessa di Apollo, ci avevano messo in guardia dal pericolo imminente, senza essere creduti. A dire il vero, però, le Cassandra sono molte più di quelle poi passate sotto le luci dei riflettori. Più o meno tutti gli studiosi e le studiose assennati e genuinamente critici delle culture accademiche egemoniche.

2. Questa crisi, atto primo (o i subprime spiegati a tuo figlio)

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Cassandra

Cassandra

La crisi di cui stiamo parlando si è manifestata dapprima come crisi finanziaria, con lo scoppio di una bolla speculativa nel mercato immobiliare statunitense. Sono tristemente noti mutui subprime a giocare un ruolo principale in questa storia. Subprime non significa altro che mutui più cari, concessi a persone di serie B, che un mutuo, in teoria, non potrebbero permetterselo per questioni di redditto, di patrimonio o di “passato creditizio imperfetto”. A tali clienti oltre-frontiera sono destinati i mutui subprime, ma ad una condizione: che paghino di più (un tasso d’interesse più alto), una sorta di assicurazione preventiva di chi concede il mutuo (banca o azienda specializzata) contro l’alta probabilità d’insolvenza. Chi invece ha un reddito elevato magari anche un patrimonio importante e che con ogni probabilità può ripagare il suo mutuo senza troppi problemi, riceve un trattamento di serie A, un tasso d’interesse basso, si tratta di un cliente prime. In un certo senso, ci si potrebbe fermare qui per capire questa bolla e la sua fine, perché tutto sommato:

se a una persona fidata posso prestare 100, nella ragionevole presunzione che mi possa restituire 110, perché mai dovrei aspettarmi di più da una persona meno affidabile?[5]

Tutto questo aveva un nome, prima del 2008: democratizzazione della finanza, che al contrario di quanto suggerisce il termine, non è il controllo diffuso e trasparente da parte dei cittadini delle regole della finanza, ma il loro coinvolgimento in massa nei mercati finanziari. Il che significa una domanda in continua espansione, sostenuta solo dal continuo indebitamento. Oltrepassata la frontiera, infatti, la “finanza democratica” ha iniziato a tirare dentro anche chi è stato appellato, con disprezzo, n.i.n.j.a. (No Verification of Income, no Job or Assett), condizione socio-economica che – per definizione – non permette di ripagare alcun debito[6]. Il bello, si fa per dire, viene quando questi mutui diventano la base per costruire strumenti finanziari (derivati) da piazzare nelle borse di tutto il mondo. Alto rischio, alto tasso d’interesse, grandi profitti.
A questo va aggiunta la politica monetaria della Federal Reserve (banca centrale statunitense), che dal 2000 ha abbassato a tal punto il tasso di sconto (tasso d’interesse applicato ai trasferimenti dalla banca centrale ad altre banche o istituti di credito[7]) da arrivare addirittura a toccare livelli negativi (in termini di tassi reali: dal 6,24% di fine 2000 all’1,13% di fine 2003[8]). Si ha così una ricetta perfetta per gonfiare la nostra bolla: domanda in forte espansione nel mercato mobiliare, prezzi in continuo rialzo, basso costo del denaro e compravendita dei titoli emessi sui mutui. Le bolle, è stato scritto, «hanno infatti il difetto – finché durano – di essere “popolari”, perché appaiono arricchire tanti senza nulla togliere a nessuno»[9]. E per diversi anni l’edificio regge. Almeno finché tutte le condizioni di sopra restano invariate.

Cassandra: la crisi annunciata

Alan Greenspan

Alan Greenspan, a capo della Federal Reserve dal 1987 al 2006, aveva combattuto ogni bolla[10] tramite manovre espansive al fine di aumentare la liquidità dei mercati (abbassando il tasso di sconto o aumentando la quantità di moneta), tanto da far coniare l’espressione “Greenspan put”, una sorta di iniezione, di antidepressivo, che la Federal Reserve era sempre pronta a somministrare quando qualcosa andava storto. Ed era davvero un alone magico quello che circondava le manovre di Greenspan: queste, infatti, pur essendo inflattive per definizione, non davano come risultato alcuna inflazione. O meglio, il fatto – come poi sarà chiaro per tutti – è che queste iniezioni andavano a gonfiare preponderantemente i mercati finanziari e non quelli di beni di consumo. L’aumento dei prezzi e l’inflazione, dunque, c’erano, ma da un’altra parte.
E, così, quando nel 2004 il tasso viene progressivamente rialzato, per “raffreddare” il mercato dei titoli collegati ai mutui (di cui la componente subprime è ormai importantissima[11]), l’edificio crolla e innesca una serie di fallimenti a catena.

Tutto questo, però, aveva una sua razionalità storica, per così dire: era il risultato di scelte di politica economica consapevoli, che rispondevano ad un logica diffusa, specie nelle business school e con un grande consenso accademico. Non è un caso che proprio Alan Greenspan, nella sua relazione al Congresso dell’ottobre 2008, abbia dichiarato che il suo «intero edificio intellettuale è crollato nell’estate dell’anno scorso»[12]. È infatti per sostenere il lato della domanda che si è ricorsi massicciamente allo strumento del credito. Non solo il mutuo per comprare la casa, ma anche per sostenere i consumi quotidiani. Ed è per questo motivo che si sono dovuti allentare gran parte dei lacci e delle costrizioni che tenevano a bada il sistema creditizio. Ecco spiegata la necessità di allargare il mercato a nuove fasce di clienti, per tenere alto il livello della domanda.

Il fulcro delle politiche d’ispirazione keynesiana, alla base del capitalismo mondiale negli anni della cosiddetta età dell’oro (1945-69[13]), era stato quello di mantenere un elevato potere d’acquisto (i salari) che riuscisse a produrre la domanda di beni di consumo e servizi necessaria non solo ad assorbire la produzione in atto, ma anche ad innescare un circolo virtuoso del tipo profitti-salari-prezzi-profitti etc (era un’economia detta “dal lato della domanda”). Questo risultato è inoltre garantito dall’intervento diretto dello Stato che ricorre al debito pubblico come esplicita manovra anti-ciclica.
Negli anni Settanta l’occupazione quasi piena, che era ormai considerata normalità, ha «ceduto il posto ad un livello di disoccupazione alto e pressoché costante di natura strutturale»[14] senza riuscire però a fermare l’inflazione, due fenomeni che non si erano mai verificati contemporaneamente (non può esserci aumento dei prezzi se i consumi scendono). Difronte a questo nuovo fenomeno, la stagflazione, si apre una lunga stagione di ristrutturazione dell’intero sistema capitalistico, volta a ridurre drasticamente i costi di produzione: spostando gli impianti produttivi in paesi a più basso costo di manodopera, livelli bassi di sindacalizzazione e bassa regolamentazione dell’attività economica e dei flussi finanziari; ricorrendo poi a processi di produzione automatizzata ad alto livello tecnologico e, infine, spostando una percentuale crescente di attività nei mercati finanziari (aprendo una stagione di economia “dal lato dell’offerta”).
Disoccupazione “strutturale” significa, soprattutto, bassi consumi. Ma per sostenere e assorbire la produzione, c’è bisogno di un livello di domanda accettabile, cui hanno fatto fronte «l’azzeramento della propensione al risparmio (cioè dalla quota di reddito che viene risparmiata invece che spesa per consumi) e l’ampio foraggiamento ai consumi che è provenuto dal credito»[15].
Le politiche di sostegno alla domanda sono state così semplicemente sostituite dal ricorso massiccio all’indebitamento privato con due importanti conseguenze strettamente legate tra loro: da un lato un crescente coinvolgimento dei singoli individui nei mercati finanziari e, dall’altro, un «trasferimento dei rischi e delle responsabilità dal collettivo all’individuale» di pari passo ad un restringimento del welfare state e ad una continua «delegittimazione dell’interventismo»[16]. D’altronde, era (è?) in auge una cultura politico-economica che ha inventato nuovi strumenti finanziari per

spersonalizzare la valutazione del rischio di credito, liberandosi dalla valutazione diretta degli agenti come persone, e quindi dalla componente fiduciaria non meramente calcolabile probabilisticamente, nella convinzione che i mercati mossi dall’incentivo dell’interesse potessero calcolare meglio e con più precisione i rischi[17].

3. Non pensare oggi a quello che accadrà domani (o la finanziarizzazione)

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Mutui subprime

Ma come si può fare credito a chi non ha nessun requisito per ripagare un debito? E com’è possibile che un rischio così alto, possa restare sottotraccia per almeno due decenni?
Fitoussi lo spiega in questi termini:

il sistema avrebbe realmente tentato di inventarsi una nuova aritmetica per risolvere l’impossibile equazione dentro la quale si era andato a cacciare. […] Per erogare un maggior rendimento occorreva aumentare il livello di rischio; ma su scala globale, l’uno e l’altro si compensavano, per cui il rendimento medio non ne avrebbe risentito. Ecco dunque la soluzione: sbarazzarsi del rischio (o credere di averlo fatto) diluendolo in titoli e veicoli finanziari complessi, in cui si associavano componenti di rischio diverse[18].

Ma cosa sono questi “veicoli finanziari complessi”? Per quello che interessa capire qui, rimaniamo alla cartolarizzazione e ai derivati sul credito.
Come esempio pratico di cartolarizzazione prendiamo una delle creazioni di successo della statunitense Fannie Mae, la nota government sponsored enterprise (impresa governativa) specializzata in finanziamenti. Siamo nel 1987 e lo strumento in questione è la CDO: Collateralized Debt Obligation, obbligazione che impegna chi la vende a ricomprarla entro un certo lasso di tempo. Ma la CDO non è un’obbligazione qualsiasi, bensì l’impacchettamento di numerosi titoli emessi su altrettanti contratti di credito (fra cui i mutui subprime), di diversa entità e a diverso livello di rischio. Quando il debitore ripaga il suo creditore, dunque, questi pacchetti di titoli danno un rendimento a chi li ha comprati. Va da sé che, quando tutto va bene, questi vengono anche venduti sul mercato, magari ad un prezzo più alto di quello iniziale, guadagnando un extra.

La parola inglese per cartolarizzazione è securitization. L’idea, dunque, è quella di mettere al sicuro un insieme di crediti che, com’è ovvio, non sono mai completamente immuni dal rischio di non essere ripagati. Metterli al sicuro, dunque, è la “nuova aritmetica” di cui parla Fitoussi.
Impacchettati e trasformati in un titolo negoziabile, il creditore (banca o chi per essa) si liberano istantaneamente del rischio associato a quell’insieme di crediti. Usualmente li si vendeva ad un terzo attore, chiamato società veicolo o a compito speciale (SIV, SPV[19]). Ma la società veicolo può a sua volta liberarsene come obbligazioni a scadenza più breve, ricavando un profitto sulla differenza fra interessi che paga e quelli che incassa, oppure può creare un nuovo impacchettamento (ABS: Asset-backed Securities o, nel caso specifico dei mutui, Mortgage-backed Security).

I derivati di credito (credit derivatives), come ogni strumento finanziario derivato, sono contratti il cui valore dipende dalla variazione di valore di un altro strumento finanziario. Nel nostro caso, il derivato ha come valore un credito e la sua ragion d’essere è di assicurare quel credito dalla possibilità di insolvenza del debitore. Esso non è altro che un rapporto di compravendita di protezione, che come tale esige la presenza di un protection seller (venditore di protezione) e un protection buyer (compratore di protezione). La tipologia più diffusa di assicurazione sul credito è quella dei Credit Default Swaps (CDS) e delle Credit Default Options (CDO): la prima assume la forma del pagamento di una commissione periodica da parte di chi fornisce credito (la banca o chi per essa, compratore di protezione) a chi assicura questo credito in caso di fallimento (l’assicurazione, venditore di protezione). In più tali strumenti, secondo la pratica ormai nota, vengono inseriti all’interno di ulteriori strumenti finanziari ancora una volta per poter rendere liquido qualcosa che non lo è e liberarsi dei rischi di bilancio.

«Facciamo credito a tutti»

«Facciamo credito a tutti»

Per completare il quadro, bisogna menzionare le ormai famosissime agenzie di rating: società che forniscono una valutazione su singoli titoli, strumenti finanziari, aziende e stati. In pratica si tratta di una stima sulla possibilità futura che l’oggetto posto in esame possa andare in fallimento. Il ruolo, dunque, è quello di aumentare l’efficienza dei mercati, rendendo disponibili una serie di informazioni e valutazioni di esperti. Ancora oggi, le più importanti sono le Tre Grandi[20]. Il loro operato è stato sottoposto, specie negli ultimi anni, a numerose critiche.
Le valutazioni, ad esempio, si basano sulle tendenze dell’ultimo quinquennio e non su schemi prospettici ed è per questo prima dello scoppio di una bolla i rating assegnati non possono che essere positivi. Ma il fatto stesso che siano, nonostante tutto, dei privati, attori anche loro del mercato che dovrebbero valutare oggettivamente, insomma: «società per azioni che hanno l’obiettivo della massimizzazione del profitto»[21]. Prima degli anni Settanta, queste agenzie erano pagate direttamente degli investitori (tramite abbonamenti), per passare poi ad essere pagate direttamente da chi emette i titoli. La loro oggettività viene messa ancora una volta sotto critica: come può valutare in modo oggettivo un’agenzia i cui profitti dipendono da chi ha tutto l’interesse a far risultare affidabili i propri prodotti finanziari? «Il sospetto – come appunto noterebbe chiunque – è che un’emittente di CDO possa essenzialmente comprare la propria AAA»[22]. Una volta attribuito un rating è sempre più difficile per l’agenzia modificarlo spesso o farlo oscillare troppo: sarebbe, infatti, l’ammissione di una propria errata valutazione nel passato, risultando inaffidabile. Senza contare i legami molto stretti che molte personalità di spicco delle Big Three hanno con le grandi banche mondiali o il fatto che (almeno dagli anni intorno al 2000) esse abbiano iniziato a fornire consulenze alle emittenti di titoli. E ovviamente sarebbe assurdo non dare la tripla A ad un titolo che si è contribuito a creare, «guadagnandoci pure due onorari»[23].

4. Che fine ha fatto il rischio

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Posto che le grandi banche siano riuscite a distribuire in modo più diffuso i rischi insiti nei prestiti da loro concessi, chi sono i soggetti che attualmente detengono tali rischi, e quali sono le loro capacità di gestirli? La verità è che non lo sappiamo.
Banca dei Regolamenti Internazionali, 2007[24].

Come ridurre il rischio finanziario

Come ridurre il rischio finanziario

Le novità inserite nel modo di fare credito in questi ultimi tempi fanno emergere una grande de-responsabilizzazione all’interno dei rapporti di credito. Gli economisti e storici dell’economia Massimo Amato e Luca Fantacci spiegano che il credito è essenzialmente quella promessa fra creditore e debitore che permette innanzitutto l’anticipazione creditizia, ma nondimeno la sua restituzione entro uno spazio temporale comunemente determinato. Dal momento che esso «come lo scambio, è, per essenza, non una cosa ma una relazione»[25], se si allenta la responsabilità è ragionevole aspettarsi un suo cambiamento sostanziale.
La questione del rischio qui è fondamentale. Il rischio dovrebbe essere condiviso da entrambe le parti, sopportabile perché a tempo determinato e ponderato adeguatamente da ambo le parti, così legate reciprocamente e in maniera responsabile. Quando una delle due, però, tenta di rendere sempre più “leggera” la propria posizione, distribuendo il rischio e la responsabilità su altri, la conseguenza naturale è che il rapporto viene meno, la responsabilità si fa più lasca e le situazioni di fallimento più possibili. Se si tiene conto, poi, che praticamente tutti gli attori in gioco hanno fatto propria questa tendenza, ci si rende facilmente conto che la crisi (come fallimento simultaneo di molti) diventa una possibilità all’ordine del giorno.
Il sistema attuale, detto originate and distribute, proprio per la sua adozione generalizzata ed estrema, è ad oggi indicato come il maggior responsabile della crisi. Questo perché di fatto esso ha fallito nel tentativo di annullare il rischio di credito, trasformandolo in rischio di liquidità. A questo proposito esso è stato chiamato modello originate and pretend to distribute[26] proprio perché assumendo proporzioni massicce aumentano le criticità sottolineate e diventano sistemiche, rivelando il modello per quello che è: «un’operazione di tipo contabile volta a mistificare nel fuori bilancio l’effettiva esposizione al rischio di credito delle banche»[27].
Ciò che più colpisce è una sorta di fideismo che sembra aver dominato l’atteggiamento di banche, assicurazioni e investitori professionali. Grazie a questi strumenti, infatti, si migliorava la propria liquidità a fronte di un passivo in bilancio (il credito) che liquido non era mai stato. Desta meraviglia che questa liquidità venisse spesa per concedere altro credito, per generare nuovi guadagni e non si spendesse invece per creare una cassa e un’assicurazione sulla possibilità di fallimento. Anzi, in un certo senso, buttare fuori bilancio il rischio è stato anche un modo per eludere la regolamentazione sulle riserve (accordi di Basilea) a fronte di attività sostenute che si poteva così fingere di non sostenere.
Il fallimento, infatti, è sempre possibile. Quando poi ci si riempiono le tasche di mutui subprime, le probabilità aumentano. Come nell’illusione di un profitto che si auto-incrementa indefinitamente senza una controparte di rischio, ci si è (più o meno consapevolmente) avviati verso questa crisi.
A questo punto, però, ci si potrebbe chiedere: perché una crisi di queste dimensioni si è verificata? Perché il fallimento di una percentuale piuttosto piccola di mutuatari insolvibili ha fatto precipitare l’intero castello costruito dalla “finanza creativa”?

I risultati dell'inflazione?

I risultati dell'inflazione?

Si è visto che i nodi iniziano a venire al pettine quando la FED alza i tassi d’interesse per via della bolla immobiliare sempre più paurosa e di chiare tendenze inflazionistiche sia nei mercati finanziari, sia in quelli reali delle materie prime. Il primo effetto di un inversione di rotta di questo tipo si nota nell’aumento parallelo dei tassi d’interesse direttamente collegati al credito: da una parte l’interbancario, cui le banche si vincolano per prestarsi denaro a vicenda, dall’altra il tasso che queste ultime, così come gli altri intermediari finanziari, applicano sui crediti da loro emessi.
Per quanto riguarda il mercato immobiliare, questo porta ad un innalzamento generalizzato dei tassi d’interesse. La maggior parte dei mutui subprime erano a tasso variabile: dopo i primi due anni di tasso agevolato, la rata mensile inizia a lievitare. In più il rialzo del tasso d’interesse condiziona direttamente anche il valore sottostante e i prezzi di mercato degli immobili. Dire che la bolla si sgonfia indica sostanzialmente che i prezzi degli immobili, dopo una stagione al rialzo, scendono sensibilmente. Ma ciò non si ripercuote solo sui nuovi acquisti o sulle nuove costruzioni, ma anche sugli immobili già venduti e i mutui accesi per acquistarli. Lo scostamento crescente dei due valori, inoltre, si traduce direttamente nella riduzione reale della protezione fornita dall’ipoteca. In caso di insolvenza, infatti, l’ipoteca sull’immobile posta a garanzia del mutuo acceso, diventa a dir poco evanescente.
A questo punto, inoltre, s’innesca il meccanismo a catena noto come paradosso di Fisher, che ha come più evidente conseguenza l’emergere di un ridotto potere d’acquisto dei lavoratori e cittadini indebitati volgendo presto in vera e propria deflazione da debito[28]: più si cerca di rientrare dal debito, così come richiesto dal finanziatore per via del tasso d’interesse crescente che lo preoccupa, più si fa fatica a farlo perché il valore sottostante diminuisce alimentando un circolo vizioso.

Tuttavia l’accoppiata di questi due elementi – prime insolvenze e ribasso dei prezzi degli immobili sottostanti – non è sufficiente a spiegare il cosiddetto contagio, ma da qui si possono ricavare almeno altre due conseguenze importanti. In primo luogo la “leva finanziaria”, ovvero del rapporto squilibrato fra valore reale sottostante e valore dei titoli scambiati. Se il valore del mutuo eccede (anche di molto) il valore dell’immobile sottostante, i titoli emessi sui mutui, di conseguenza, si comportano allo stesso modo. Si scopre così che sull’onda della bolla tutti hanno investito su titoli che dopo aver dato (nel breve periodo) profitti sorprendenti, si sgonfiano bruciando enormi ricchezze. E si scopre che la cartolarizzazione era un modo fallace di disfarsi del rischio, perché non ha fatto altro che diffonderlo e occultarlo fra la miriade di strumenti finanziari posseduti da molti (banche, hedge funds, investitori individuali, compagnie assicurative, produttori etc.). In secondo luogo, proprio a fronte di manovre così spinte nell’uso della leva finanziaria, nessuno ha tenuto da parte sufficienti riserve per far fronte ad un eventuale momento negativo.

Le banche, ad esempio, mentre da un lato si sbarazzavano di questi titoli vendendoli alle “loro” società ombra, dall’altro li riprendevano investendo su quegli stessi titoli, garantiti dalla tripla A delle agenzie di rating. Le aspettative sui mercati crollano, il nervosismo sale alle stelle e tutti cercano di disfarsi di titoli che giorno dopo giorno si deprezzano. I rapporti interbancari si raffreddano e nessuno fa più credito a nessuno, innescando la recessione. L’insolvenza di una percentuale non certo maggioritaria, seppur importante[29], di mutuatari si trasforma così in una crisi di liquidità che grava direttamente sui processi produttivi e sulla crescita. Disoccupazione e povertà diventano una preoccupazione reale per milioni di lavoratori in tutto il mondo, coinvolgendo nella crisi tutto il sistema.

5. Dove andiamo?

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L’essere dotato di ragione può fare di ogni ostacolo una materia del suo lavoro e trarne vantaggio.
Marco Aurelio[30]

Quest’articolo apre e chiude, necessariamente, con due interrogativi. Mentre il primo – lo sforzo di definire la crisi e ripercorrerla nei suoi nodi centrali – è cosa relativamente facile, il secondo è certamente più impegnativo e non può risolversi nel giro di qualche parola. È certo che questa risposta è già venuta fuori, nel segno delle politiche prima di salvataggio e poi di austerity intraprese, prima di tutto, da Stati Uniti e Unione Europea. E continuerà a venire fuori nelle forme e nei modi determinati dalle forze in campo.

In questo breve excursus della prima fase dell’ultima crisi non ho voluto far altro che fornire un paio di elementi di analisi, provando ad usare la prospettiva storica difronte a fatti recentissimi. Non è affatto detto che ci sia riuscito, né che abbia utilizzato una metodologia corretta. Com’è giusto che sia, questi fatti verranno analizzati con maggiore profondità da storici ed economisti molto più competenti di me e saranno parte imprescindibile del lavoro di chiunque rifletterà intorno ai problemi del nostro tempo.

Piace pensare, comunque, che anche noi, semplici abitanti di questo mondo, possiamo essere una di quelle forze in campo e decidere, in qualche modo, del nostro futuro. Che questi contributi, per quanto piccoli, siano d’aiuto per suscitare almeno un dibattito, è cosa che possiamo dire solo a posteriori.

[Bibliografia]

Se vuoi leggere di più su come è stato scritto questo articolo, butta un occhio qui.

Note   (↵ returns to text)
  1. M. Amato, L. Fantacci, Fine della finanza. Da dove viene la crisi e come si può pensare di uscirne, Donzelli, Roma 2009, p. 93.↵
  2. Questo articolo è la rielaborazione di una breve ricognizione del dibattito sull’ultima crisi economica, su cui ho lavorato nel periodo 2009-2010. Come tale, parlando di crisi in questo articolo, si ha in mente la prima fase della crisi economica mondiale che è ancora in corso, la cui prima manifestazione evidente è rappresentata dallo scoppio della bolla dei mutui subprime. Per evitare di appesantire questo testo, si rimanda a quelle pagine, di cui ho fornito alcune spiegazioni metodologiche e riferimenti bibliografici maggiori di quelli usati qui per la scrittura.↵
  3. O meglio, che è di vitale importanza “costruire senso” intorno a questo termine, inserirlo dunque in un discorso di cui tutti (o il maggior numero possibile di persone) possano appropriarsi, evitando così di ridurre il tutto entro lo spazio, privato, dei tecnicismi; così A. Inglese in Costruire mondi comuni. Crisi finanziaria e democrazia, in «Alfabeta2», n. 15 (dicembre) 2011, anche disponibile su http://www.nazioneindiana.com/2011/12/12/costruire-mondi-comuni-crisi-finanziaria-e-democrazia, consultato il 29 gennaio 2012.↵
  4. A. Inglese, Costruire mondi comuni. Crisi finanziaria e democrazia, in «Alfabeta2», n. 15 (dicembre) 2011, anche disponibile su http://www.nazioneindiana.com/2011/12/12/costruire-mondi-comuni-crisi-finanziaria-e-democrazia, consultato il 29 gennaio 2012.↵
  5. M. Amato, L. Fantacci, Fine della finanza. Da dove viene la crisi e come si può pensare di uscirne, Donzelli, Roma 2009, p. 93.↵
  6. Si vedrà fra poco quale escamotage tecnico il sistema finanziario si era inventato per aggirare il problema.↵
  7. Per saperne di più, cfr. http://www.federalreserve.gov/monetarypolicy/discountrate.htm, consultato il 29 gennaio 2012.↵
  8. F. Colombini, A. Calabrò, Crisi globale e finanza innovativa: irrazionale creazione, trasferimento e moltiplicazione del rischio di credito, UTET, Torino 2009, p. 16.↵
  9. G. Vaciago, Regola uno: non tollerare più bolle, in «Il Sole 14 Ore», 3 ottobre 2009.↵
  10. Dal «crollo di Wall Street del 1987, e passando per le crisi del debito russo e brasiliano, lo sgonfiamento della bolla del Nasdaq, i timore connessi con il passaggio al nuovo millennio e con l’attacco alle torri gemelle» (M. Amato, L. Fantacci, Fine della finanza. Da dove viene la crisi e come si può pensare di uscirne, Donzelli, Roma 2009, p. 109) fino al 2001 con la crisi della new economy e la bolla delle cosiddette dot.com, aziende di commercio online.↵
  11. Passando dal 7% del 2001 al 25% nel 2005. I mutui “a documentazione ridotta”, invece, passano dal 15% del 2000 al 45% del 2006, cfr. F. Colombini, A. Calabrò, Crisi globale e finanza innovativa: irrazionale creazione, trasferimento e moltiplicazione del rischio di credito, UTET, Torino 2009, p. 21.↵
  12. Cit. in E. L. Andrews, Greenspan Concedes Error in Regulation, in «The New York Times», 23 ottobre 2008, http://www.nytimes.com/2008/10/24/business/economy/24panel.html, consultato il 29 gennaio 2012.↵
  13. Alcuni economisti e storici dell’economia segnalano una periodizzazione diversa, considerando il 1973, primo shock petrolifero, come la fine del periodo indicato. Altri, preferiscono vedere il rialzo del prezzo del petrolio come un ulteriore fatto di crisi e non come la causa scatenante. Si tenga, però, sempre presente che parlare di un rapporto lineare causa-effetto, nella storia economica, a volte è estremamente difficile.↵
  14. T. Kowalik, “Crisi”, in Enciclopedia, vol. IV (Costituzione-Divinazione), Einaudi, Torino 1978, p. 169.↵
  15. S. Cesaratto, A sinistra della crisi, in «Economia e Politica», 26 febbraio 2009, http://www.economiaepolitica.it/index.php/europa-e-mondo/a-sinistra-della-crisi, consultato il 29 gennaio 2012.↵
  16. A. Finlayson, Financialisation, Financial Literacy and Asset-Based Wellfare, in «The British Journal of Politics and International Relations», vol. 11, 2009, p. 403, traduzione mia.↵
  17. C. Trigilia, Il liberismo non è un cliché, in «Il Sole 24 Ore», 3 giugno 2009.↵
  18. J-P. Fitoussi, Il capitalismo sotto la tenda a ossigeno, in «La Repubblica», 5 novembre 2008.↵
  19. Letteralmente: Special Purpose Vehicle e Structured Investment Vehicle. Tali società, mantenendo stretti legami con la banca di cui erano dirette filiazioni, se non altro per motivi di reputazione, sono state definite dalla Banca dei Regolamenti Internazionale “sistema bancario ombra”, cfr. M. Onado, Il problema è capitale, 27 agosto 2008, in L. Pellizzon (a cura di), Il mondo sull’orlo di una crisi di nervi: origine, sviluppi, responsabilità della crisi che ha sconvolto l’economia globale, Castelvecchi, Roma 2009, p. 52.↵
  20. Le Big Three sono: Standards&Poor, Moody’s e Fitch. Insieme detenevano circa il 95% del mercato nel dicembre 2007, cfr. R. Portes, Agenzie di rating: la riforma è un rompicapo, 11 febbraio 2008, in L. Pellizzon (a cura di), Il mondo sull’orlo di una crisi di nervi: origine, sviluppi, responsabilità della crisi che ha sconvolto l’economia globale, Castelvecchi, Roma 2009, pp. 301-309, in nota 3.↵
  21. F. Colombini, A. Calabrò, Crisi globale e finanza innovativa: irrazionale creazione, trasferimento e moltiplicazione del rischio di credito, UTET, Torino 2009, p. 46.↵
  22. F. Strier, Rating the Raters: Conflicts of Interest in the Credit Rating Firms, in «Business and Society Review», vol. 113/4, dicembre 2008, p. 535.↵
  23. R. Portes, Agenzie di rating: la riforma è un rompicapo, 11 febbraio 2008, in L. Pellizzon (a cura di), Il mondo sull’orlo di una crisi di nervi: origine, sviluppi, responsabilità della crisi che ha sconvolto l’economia globale, Castelvecchi, Roma 2009, cit. p. 303.↵
  24. 77a relazione annuale della Banca dei Regolamenti Internazionali, giugno 2007.↵
  25. M. Amato, L. Fantacci, Fine della finanza. Da dove viene la crisi e come si può pensare di uscirne, Donzelli, Roma 2009, p. 47.↵
  26. Letteralmente: creare e fingere di distribuire; cfr. F. Colombini, A. Calabrò, Crisi globale e finanza innovativa: irrazionale creazione, trasferimento e moltiplicazione del rischio di credito, UTET, Torino 2009, p. 26.↵
  27. F. Colombini, A. Calabrò, Crisi globale e finanza innovativa: irrazionale creazione, trasferimento e moltiplicazione del rischio di credito, UTET, Torino 2009, p. 27, corsivo mio.↵
  28. Il concetto viene ripreso dall’analisi di G. Gattei in Id., Una formula per questa crisi, in «Economia e Politica», 13 febbraio 2009, http://www.economiaepolitica.it/index.php/europa-e-mondo/una-formula-per-questa-crisi, consultato il 29 gennaio 2012; che – pur spiegandolo con un valore sottostante fatto di titoli e non di immobili – non sembra allontanarsi troppo dal meccanismo di fondo che si vuole qui descrivere.↵
  29. Non è facile ricostruire dal dibattito quanto quelle che si sono chiamate le componenti deboli del mercato immobiliare abbiano pesano realmente sul sistema nella sua interezza. È certo che la cifra dei soli subprime sebbene abbia assistito ad un innalzamento notevole negli ultimi anni, non arrivava a pesare più del 15%-20 del totale dei mutui poco prima della crisi (cfr. M. Amato, L. Fantacci, Fine della finanza. Da dove viene la crisi e come si può pensare di uscirne, Donzelli, Roma 2009, p. 92 e F. Colombini, A. Calabrò, Crisi globale e finanza innovativa: irrazionale creazione, trasferimento e moltiplicazione del rischio di credito, UTET, Torino 2009, p. 21), toccando la quota del 40% se considerata insieme ai mutui Alt-A (quasi prime) nel complesso dei mutui a tasso variabile (D. Baker, The housing bubble and the financial crisis, in «Real-World Economics Review», n. 46, maggio 2008, p. 76).↵
  30. Citato in esergo a S. Weil, Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, Adelphi, Milano 2008 (1a ed. francese 1955).↵
    • Amato M., Fantacci L., Fine della finanza. Da dove viene la crisi e come si può pensare di uscirne, Donzelli, Roma 2009.
    • Andrews E. L., Greenspan Concedes Error in Regulation, in «The New York Times», 23 ottobre 2008, http://www.nytimes.com/2008/10/24/business/economy/24panel.html, consultato il 29 gennaio 2012.
    • Banca dei Regolamenti Internazionali, 77a relazione annuale, giugno 2007, disponibile su: http://www.bis.org/publ/arpdf/ar2007e1.pdf, consultato il 29 gennaio 2012.
    • Baker D., The housing bubble and the financial crisis, in «Real-World Economics Review», n. 46, maggio 2008, pp. 73-81.
    • Cesaratto S., A sinistra della crisi, in «Economia e Politica», 26 febbraio 2009, disponibile su: http://www.economiaepolitica.it/index.php/europa-e-mondo/a-sinistra-della-crisi.
    • Colombini F., Calabrò A., Crisi globale e finanza innovativa: irrazionale creazione, trasferimento e moltiplicazione del rischio di credito, UTET, Torino 2009.
    • Finlayson A., Financialisation, Financial Literacy and Asset-Based Wellfare, in «The British Journal of Politics and International Relations», vol. 11, 2009, p. 400-421.
    • Fitoussi J-P., Il capitalismo sotto la tenda a ossigeno, in «La Repubblica», 5 novembre 2008.
    • Gattei G., Una formula per questa crisi, in «Economia e Politica», 13 febbraio 2009, disponibile su: http://www.economiaepolitica.it/index.php/europa-e-mondo/una-formula-per-questa-crisi.
    • Inglese A., Costruire mondi comuni. Crisi finanziaria e democrazia, in «Alfabeta2», n. 15 (dicembre) 2011, anche disponibile su http://www.nazioneindiana.com/2011/12/12/costruire-mondi-comuni-crisi-finanziaria-e-democrazia, consultato il 29 gennaio 2012.
    • Kowalik T., “Crisi”, in Enciclopedia, vol. IV (Costituzione-Divinazione), Einaudi, Torino 1978, p. 169 e segg.
    • Pellizzon L. (a cura di), Il mondo sull’orlo di una crisi di nervi: origine, sviluppi, responsabilità della crisi che ha sconvolto l’economia globale, Castelvecchi, Roma 2009 (tutti gli articoli sono disponibili su: www.lavoce.info).
    • Strier F., Rating the Raters: Conflicts of Interest in the Credit Rating Firms, in «Business and Society Review», vol. 113/4, dicembre 2008, p. 533-553.
    • Trigilia C., Il liberismo non è un cliché, in «Il Sole 24 Ore», 3 giugno 2009.
    • Vaciago G., Regola uno: non tollerare più bolle, in «Il Sole 14 Ore», 3 ottobre 2009.
    • Weil S., Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale., Adelphi, Milano 2008 (1a ed. francese 1955).

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