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Girando per la provincia di Padova, verrebbe da chiedersi chi può aver l'idea di costruire un castello che affaccia sulla trafficata statale Adriatica. Basta chiudere per un secondo gli occhi però per comprendere come vedeva questa sede nel 1570 Pio Enea degli Obizzi. Un'oasi di quiete ai piedi dei colli Euganei, con in più la praticità della via fluviale, rapido mezzo di comunicazione all'epoca. Fu lo stesso Pio Enea a ideare il palazzo, che desiderava adeguato alla gloria della famiglia. Per onorarla, chiamò Gian Battista Zelotti affinché decorasse le stanze con affreschi che ripercorressero le gesta degli Obizzi. Il palazzo realizzato come un connubio tra un castello militare e una villa principesca, passò in mano agli eredi della casa d'Este alla morte del marchese Tommaso, ultimo discendente di Pio Enea, nel 1805. Solo in seguito venne aggiunta l'ala detta “Castel Nuovo”, che diede una nuova altezza alla costruzione. L'armeria ed il museo creati dagli Obizzi vennero trasferiti all'estero quando il Castello passò in mano all'Arciduca ereditario Francesco Ferdinando.
Sebbene poche stanze siano attualmente visitabili, si può ancora camminare nel piccolo parco con alberi secolari e costeggiare il lago rallegrato da vivaci ninfee. Si possono ammirare le sculture esterne, in particolar modo la Statua dell'Elefante, e vengono ripercorsi i passi della famiglia Obizzi tramite gli affreschi ancora in buone condizioni. Una volta raggiunta l'ampia terrazza, infine, si può per un attimo voltare le spalle alla frenesia moderna per immergere lo sguardo negli ancora incontaminati Colli, un tempo riserva di caccia dei nobili che hanno impresso la loro ombra tra quelle mura. E dato che Padova è famosa per il suo spirito goliardico, anche il Catajo saluta a modo suo. L'effige della Gabrina, una cortigiana maliziosa, è infatti incisa sulla pietra. Il curioso che si avvicinerà per leggere la targa posta accanto sarà schizzato con un tenue getto d'acqua che arriva tramite un complesso gioco di tubature costruito per non scordare lo spirito giocoso della donna.
La maggior parte di chi si reca ora al Castello se ne andrà ricordando le scale create apposita per permettere la salita ai cavalli, piuttosto che il viale d'ingresso a cui si accede tramite due pilastri sormontati da statue, piuttosto che l'affresco rappresentante la virtù della prudenza con i suoi oggetti distintivi, lo scudo, il compasso e la serpe. Altri ricorderanno la scritta “Quae sin nosce utere sorte tua” oppure le ultime parole della Gabrina: “Gabrina giace qui vecchia e lasciva,/ qua dal vago zerbin portata in groppa/ che, benchè sorda, stralunata e zoppa/ si trastullò in amor sinché fu viva”. Qualcuno però porta con sé il ricordo di una vista che si offre a pochi. Un ricordo che viene spesso tacciato come uno scherzo degli occhi o causato da semplici riflessi. In pochi chiedono: chi è la donna che si affaccia là in alto? Il suo nome è Lucrezia e nel Castello ancora è conservata la pietra macchiata del suo sangue. Assassinata da uno spasimante la notte del 14 novembre 1654, con addosso lo stesso abito celeste che fu l'ultimo che indossò in vita, ancora si affaccia ad osservare la vita all'esterno di quelle mura, guardando il mondo cambiare attorno a lei ormai immutabile in eterno e, forse, sperando che il limbo in cui ha trascorso gli ultimi secoli non sia altro che una lunga attesa di qualcosa di migliore per lei.
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