Parte da Los Angeles per Shreveport, Louisiana, dove lo attende un regista chiassone per girare Flashpoint. Nel mezzo, tante moine ormai insopportabili da parte di hostess, fanatiche in sovrappeso, concierge d'hotel: cose alle quali Reagan è ormai impermeabile.
Il primo giorno delle riprese l'auto che lo deve portare sul set viene anticipata da quella di due malintenzionati che lo caricano con il pretesto di essere al suo servizio. Requisito del cellulare, costretto sotto pestaggio ad entrare in un capanno sulla palude e incatenato alla parete Reagan resta in balia dei suoi carnefici: l'uno più agguerrito e senza controllo, l'altro sofferente di un ritardo e più empatico con l'ostaggio. Il movente del sequestro? Reagan si sarebbe portato a letto la moglie del più cruento dei due. Non c'è dunque riscatto che lo possa salvare. L'unica soluzione liberatoria: la morte. Sotto coercizione di una pistola, l'attore è costretto a rivelare loro le password del proprio account Twitter. Tra un insopportabile pestaggio vendicativo e qualche carezzevole sollievo da parte del più comprensivo dei due sequestratori la vita dell'ostaggio rimane appesa al web dove, oltre ai dubbi sulla sua scomparsa, cominciano a circolare una serie di scandalosi tweet al veleno contro la mecca hollywoodiana, volti a distruggere la sua immagine d'attore e, ancor prima, di uomo. Ma ciò è solo un riempitivo, una sadica partita in attesa del game over. Non fosse per Junior, il malfattore più buono, quello che si è preso la cotta, quello che si rivelerà qualcosa di più che un segreto estimatore non ci sarebbe alcuna possibilità di rivedere la luce, tanto meno quella della ribalta. Ed è su di lui che l'ostaggio cerca di lavorare per poter uscire da quello che è il ruolo più infernale della sua vita per poterne avere ancora una.Catch Hell è brillante. Non brilla tanto per originalità come, al giorno d'oggi, difficilmente potrebbe un film sulla cattura di qualcuno ma è solido all'interno. La prigionia è recitata e diretta in modo sorprendente da Ryan Phillippe la cui fisicità è quasi annullata dalle catene e costretta a trasparire tutta dalle espressioni del volto e dalle parole. Ma più che la vicenda del sequestro in sé è la ricerca di una via di fuga a tenere noi perennemente in ostaggio. La scenografia è dovutamente spartana per contrapporsi ai fasti del mondo del cinema. Ian Barford (Mike) è diabolico quanto basta per toglierci ogni speranza di riavere Phillippe indietro, tutto intero. Phillippe perde denti, sangue e acquista cicatrici che progressivamente sfioriscono il suo edonismo come fu per Tippi Hedren sotto l'attacco degli uccelli di Hitchcock. E' l'immagine del declino, di una Natura ostile che si riprende quanto ha dato (l'alligatore), di una distorsione della celebrità nei suoi effetti collaterali (il tedio della notorietà). E' una prova registica coi fiocchi (l'albatros che si leva meravigliosamente in volo lungo la strada, lo spruzzo inatteso di detergente sul vetro della palestra che prelude ad un gioco di nervi). Certo è che per dare un voto, occorre calibrare tra la regia e la recitazione poiché Ryan qui gioca in doppio. Pare comunque che lui sia d'accordo con me. Almeno su Twitter. Dove è tornato a scrivere sano e salvo.