Il Web non sarà meno tenero, anzi. In alcune testate, nell’affresco presentato dal sito www.lsdi.itI click sulla pubblicità determineranno almeno una parte consistente del compenso del giornalista. In generale, una quota variabile dello stipendio sale o scende secondo il numero di pagine viste e lettori che tornano.
Per qualche editore a stelle e strisce legare lo stipendio agli introiti pubblicitari significa responsabilizzare, per chi scrive significa vendere all’asta la professionalità e l’indipendenza del cronista.
Il problema di fondo, che fa soffrire l’editoria, non viene superato dal Web, anzi si ripropone trasformato in macchine di valutazione quanto mai populiste o sfrontatamente commerciali.
Tale problema è l’incompatibilità tra gli interessi imprenditoriali dell’editore ruvidamente teso alla moneta e quelli dei giornalisti che indagano, analizzano, spiegano fenomeni sociali, economici e politici complicati, e si migliorano grazie a un rapporto continuo con i lettori, da tutelare poiché portatori del diritto di essere informati, non semplici consumatori e compratori come in Italia spesso si dà per scontato. La professionalità si deve evolvere e il linguaggio pure: la tecnologia semplifica l’accesso al sapere moltiplicando le domande, il desiderio di comprendere che il pubblico pervade.
Giornalisti che lavorano in gruppi autogestiti non patiranno l’assillo del click sull’inserzione pubblicitaria, se è quello uno dei parametri capestro di valutazione della produttività. La cooperativa resta l’organizzazione più pura, assieme alla formula dell’editore puro, che investe su medio termine e sulla qualità dell’informazione.
In assenza di queste condizioni che si fa? Una vecchia contromossa propone l’unione dei lavoratori in associazione chiamata sindacato in modo da battersi uniti, trattando, per la qualità del lavoro e un’onesta retribuzione. Qualcuno ha un’idea migliore?
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