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“Cattiva ragazza” di Justine Lévy

Creato il 01 maggio 2010 da Sulromanzo

“Cattiva ragazza” di Justine LévyDi Silvia Mango
Ci sono madri troppo buone che affrontano con masochistica accettazione qualsiasi comportamento delle figlie, a tal punto affettuose che finiscono con l’invischiarle nella melassa della loro disponibilità. Ci sono madri ombelicali che per tutta la vita provvedono alle figlie come fossero sempre poppanti, e quando queste raggiungono la soglia dei fatidici quaranta, domandano incredule, “Ma come, non stavi bene a casa tua?”. E madri tiranniche che le manipolano in modo feroce, imponendo loro stesse, le proprie scelte, le aspirazioni, lo stile di vita e rabbiose guaiscono ”Dove pensi di andare, tu?”. E poi ci sono madri ipocondriache che non perdono d’occhio la prole, e si straziano, si affliggono, la braccano, la sorvegliano e in un crescendo di tensione ne presagiscono guai e sfortune. Ci sono madri competitive che rubano i jeans dall’armadio della figlia e madri astiose che quell’armadio non lo aprirebbero mai, se non par fare un bel falò del contenuto.
E poi c’è Alice, la madre di Luise, protagonista di “Cattiva ragazza” (Ed. Frassinelli, 183 pp), l’ultimo romanzo sfacciatamente autobiografico di Justine Lévy. Alice, che un tempo è stata bellissima, la top delle top model, così sfrontata, spregiudicata eppure, nel profondo, di una fragilità disarmante, facile preda di ogni sorta di droga e abuso, ora divorata dal cancro, giace in solitudine in una clinica parigina. La scrittrice affronta l’annichilente rapporto con la madre nel delicato momento in cui scopre di portare in grembo sua figlia. 
“Fare un bambino mentre la propria madre sta morendo è proprio una buffa coincidenza, non sapevo come dirglielo - osserva la Lévy - E poi ero terrorizzata di diventare madre a mia volta”. Parole scevre di ipocrisia, che sottendono l’interrogativo che al pari di un cuore palpitante sussulta dall’interno del romanzo: Come si diventa madre quando non si ha avuto un modello cui prendere ad esempio? 
La verità è che nella squinternata vita di Alice non c’era spazio per una bambina. Da qui, la scelta quasi obbligata di andare a vivere col padre. Da qui, il dolore e il senso di colpa per aver abbandonato la madre, l’affiorare in Luise dell’immagine di sé come una “cattiva ragazza”, e non solo, una cattiva figlia anche, perché nonostante sia stata maltrattata, dimenticata, lasciata per ore e giorni senza cibo o da sola a giocare con delle siringhe, la Luise bambina esprime comunque un attaccamento e una devozione verso la mamma tali da far riflettere ancora di più sulla responsabilità di avere un figlio. 
Luise riuscirà a perdonarsi per quell’abbandono tanto tormentato solo molti anni più tardi, quando si troverà nella paradossale condizione di esprimere gratitudine per la stessa malattia che di lì a poco la strapperà per sempre dalla madre. Nella malattia, difatti, Alice scopre la chiave d’accesso per trasformarsi e ottenere riconoscimento in quella bambina che forse è sempre stata, una bambina alla continua ricerca di un rifugio sicuro. E Luise, la figlia ormai adulta, diviene la madre della propria madre, e accompagnandola negli ultimi momenti di vita, consolandola, accudendola e difendendola dallo spietato mondo degli ospedali, potrà finalmente assolversi e accogliere, libera dai sensi di colpa, la nascita della propria figlia.La catarsi si è compiuta. 
Verrebbe da chiedersi, a questo punto, se la scrittura della Lévy abbia o meno avuto un ruolo determinante nel processo di liberazione e nel susseguente riscatto. Una sorta di scrittura come terapia, dove ciò che è doloroso è l’aver vissuto le cose, perché lo scriverne, dopo, può soltanto aiutare a dare un senso ad avvenimenti che altrimenti non riusciremmo a rielaborare. 


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