La Dreamworks segna un nuovo punto a suo favore con questa deliziosa parabola sull'irrequietezza esistenziale dei personaggi: Megamind rende esplicito ciò che da tempo ormai serpeggiava tra le immagini di una cinematografia che non tollera più nessun manicheismo di fondo, salvo poi supportarlo nella sottotrama della psiche e dei ribaltamenti di ruoli e prospettive.
In Megamind la prospettiva psicanalitica trova un sostegno nella narrazione in soggettiva del soggetto e nella ricerca di precedenti infantili. Più che racconto d'eroi e di gesta ancestrali, il racconto mira a individuare i caratteri essenziali e le spinte psichiche dei partecipanti a una storia che ha dell'irreale. La Mega City che fa da sfondo a questa lotta a tutto campo tra "buoni" e "cattivi" soffre un po' dell'indefinitezza delle regioni invase dalla fantasia iperbolica di Saramago: non è tanto la singolarità dell'ipotesi iniziale ad avere la meglio, bensì l'assolutezza dei confini entro cui si svolge questa ricerca esistenziale su se stessi e sulla vita.
Ciò che forse dovrebbe far riflettere, in un'era senza eroi e senza idee per cui esserlo, è l'incapacità di credere in un nemico e nella sua forza, in un mito e nelle sue risorse. La ricerca di una fisionomia credibile in Megamind può forse commuovere un bambino, non saprei davvero: per un adulto è l'emblema di chi fatica a riconoscersi in uno specchio rotto. Il protagonista non ha un reale contraddittorio, è isolato nella sua storia, capace di accattivarsi il giusto tifo dell'uditorio, di raccontarsi in una storia d'amore, ma rimane irrisolto, niente più che un personaggio digitale incastrato in una fantasia bloccata alle porte del grande sogno.