Chi non fa parte dell’ambiente non può immaginarlo, ma quello del metallaro è uno dei mestieri più ardui al mondo. Mica per tutte le panzane riguardo il malvagio mondo conservatore che gli stessi metallari tentano di dare a bere agli outsider, probabilmente con l’intento di suscitare ammirazione e rispetto: l’ostracismo, o perlomeno l’ostracismo sordo e violento nei confronti della subcultura heavy metal è difatti tramontato da tempo, e proprio perché l’heavy metal non è più una subcultura nel senso stretto del termine. Al contrario, si è diffuso capillarmente, ibridandosi grazie alle commistioni di genere sperimentate negli ultimi venti o venticinque anni e andando a lambire, per poi invaderle, galassie distanti come quelle della letteratura fantasy o dei giochi di ruolo. Di fatto, l’immagine standard del metallaro non è più quella di un elemento socialmente pericoloso, se non nelle fantasie ansiose dei genitori di quegli adolescenti che si avvicinano a un genere musicale non certo mainstream, bensì quella di un individuo un po’ strambo, forse disadattato o emarginato, nella peggiore delle ipotesi (che spesso e volentieri risponde al vero, comunque) un alcolizzato che in nessun caso deve mettersi al volante di ritorno dai concerti. E anche il chiodo e le t-shirt d’ordinanza sono indossati da un così gran numero di persone, non necessariamente metallare, da aver perso il potere di suscitare scalpore in chicchessia.
Dimentichiamo dunque il romantico stereotipo del ribelle orgoglioso che non piega le proprie passioni alle convenzioni imposte dalla vuota società del conformismo: le vere difficoltà dell’appartenere a una comunità di metallari sono tutte in seno alla comunità stessa.
Innanzitutto, l’età dell’oro (gli anni Ottanta) ha lasciato dietro di sè una scia talmente lunga di vestigia sotto forma di t-shirt con le date dei tour, dischi in edizione limitata, poster e riviste d’annata che il metallaro ansioso di dar sfoggio di sé è costantemente impegnato in una sfibrante caccia al cimelio esclusivo, quello che gli conferirà distinzione presso i suoi sodali.
In secondo luogo, è giunta l’ora di svelare al mondo che, a dispetto di quanto i diretti interessati proclamano a gran voce, per chi ascolta heavy metal il look è fondamentale. I personaggi che formano la comunità tipo occupano posizioni rigorose nella piramide del prestigio secondo l’unico criterio del taglio di capelli, che deve rifarsi il più possibile a quelli sfoggiati dai musicisti di riferimento nei libretti dei cd. Per questo principio mio fratello, heavy metal kid doc, si reca dal parrucchiere più spesso di me e dedica una cura maniacale alla forma, sempre accuratamente delineata, dei suoi baffi.
Per una donna, poi, seguire alla lettera i canoni estetici che il genere detta comporta nella maggior parte dei casi, tra i quali spiccano però luminose eccezioni di ragazze che riescono a coniugare look aggressivo ed eleganza, un’immediata perdita della propria femminilità, che viene mortificata dentro giubbini di jeans ricoperti di toppe, le succitate t-shirt e le immancabili scarpe da ginnastica. Spero che non ci sia bisogno di specificare che la scrivente, seppur fervente appassionata di heavy metal, non è mai andata a ingrossare le fila di questo aberrante esercito di donne travestite da uomini e non ha mai lasciato il decoro fuori dai cancelli dei locali dove si tengono i numerosi concerti a cui partecipa.
Il concerto, a proposito, è il momento topico della vita del metallaro. Ai concerti affluiscono e si ritrovano metallari da tutte le città, per rinfocolare amicizie che,sebbene benedette dalla comunanza di interessi, a causa della distanza si mantengono vive solo grazie a internet e a questi sporadici incontri; ai concerti si possono incontrare nuove persone con cui scambiare pareri e notizie e, chissà, magari potenziali fidanzati (o, se ci si accontenta dell’episodio, ragazze sufficientemente ubriache e malleabili); ai concerti ci sono gli stand di dischi e merchandise; soprattutto, ai concerti i metallari possono finalmente sfogare le loro sacre energie al ritmo della musica che amano più di ogni altra. Proprio quest’ultimo aspetto fa emergere drammaticamente l’handicap di essere metallara e donna: in aggiunta a tutte le difficoltà sopra elencate, la costituzione esile e la relativa fragilità di cui molte di noi sono dotate mal si adattano all’orgia frenetica di spintoni e spallate cui marcantoni sudati e spesso ubriachi si abbandonano nel sottopalco durante i passaggi più terremotanti di canzoni già di per sé violente, e se esistono esemplari di donne che riescono a prendere parte e addirittura sopravvivere al cosiddetto moshpit penso di andare sul sicuro scrivendo che la maggior parte delle ragazze preferisce tenersene alla larga, per salvaguardare la propria incolumità.
Certo, c’è una zona grigia di imprevedibilità, quello 0,01% di possibilità di finire ugualmente nei guai. Io, per esempio, eri sera sono andata al Live di Trezzo sull’Adda a vedere Overkill e Destruction. Come sempre, ho evitato di avvicinarmi troppo al palco per non venire risucchiata nel moshpit e mi sono posizionata dietro al fidanzato, che da otto anni a questa parte mi protegge dai kamikaze del pogo diretti a folle velocità verso di me e a cui per questo motivo credo di dovere la vita. Quando con l’ingresso degli Overkill si è scatenato l’inferno, io ero dunque tranquilla: dietro di me nessuno stava pogando, e davanti il fidanzato si ergeva come un muro di mattoni in mia difesa. Quello che né io né lui potevamo supporre era che l’armadio a quattro ante dietro di me avrebbe avuto la geniale pensata di spingermi vigorosamente dentro il moshpit; presa alla sprovvista e sottoposta a una forza superiore alla mia capacità di resistenza, sono volata tre o quattro passi più avanti, intercettando in pieno la traiettoria di un tizio che non si è nemmeno curato di evitarmi. Ed è stato così che meno di due secondi dopo l’ingresso dentro il primo pogo della mia vita ero stesa in terra. A quel punto, chi come me è stato bambino negli anni Novanta l’ha già capito, mi è stato chiaro che una situazione del genere poteva condurmi a un unico destino:
Comprensione e rassegnazione sono state un tutt’uno. Ero così già pronta a rendere l’anima a Dio, e tutto sommato abbastanza contenta di abbandonare le spoglie mortali sulle note di Wrecking Crew, quando la mano misericordiosa del fidanzato si è protesa verso di me e mi ha risollevato dagli abissi, per poi condurmi, tremante e con gli occhi sbarrati come se fossi appena sopravvissuta a una catastrofe aerea, in un luogo più riparato dal quale ho potuto assistere al resto del concerto senza rischiare di stenderci le gambe. La lezione che ne ho tratto è quella di studiare con maggiore accortezza le zone più tranquille del locale in cui mi trovo e di non uscire mai dal loro perimetro. Nondimeno, all’energumeno che mi ha spinto in mezzo agli gnu possiamo, in virtù di quanto poc’anzi descritto, augurare di diventare immediatamente calvo e implume, di essere vittima di un furto con scasso nel quale gli vengano sottratti tutti i dischi e le reliquie degli anni Ottanta in suo possesso e di subire, magari prendendo un colpo in testa mentre sta pogando, un azzeramento della memoria musicale che lo costringa a ricominciare dai dischi degli Iron Maiden e dei Judas Priest passati sottobanco dal cugino (per qualche strana legge, tutti hanno un cugino che ascolta gli Iron Maiden). In definitiva, gli auguriamo di perdere tutto ciò che lo caratterizza come metallaro e lo rende ben accetto al suo gruppo. E se questa punizione non dovesse sembrarvi equa in rapporto agli interminabili attimi di affanno che ho vissuto a causa sua, sappiate che per chi beve ai ritmi di un metallaro l’ultima fermata si chiama sempre cirrosi epatica.
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