Con Carlo Fruttero se ne va un grande scrittore, un grande traduttore, un grande uomo e un grande amico, anche per quelli che, come me, avevano avuto modo d’incontrarlo di persona solo all’interno dei suoi libri.
Mentre se ne celebrano e se ne ripercorrono ovunque (e a ragione) le indimenticabili creazioni in coppia con Lucentini, l’amicizia intensa e tribolata con Calvino, i pensieri illuminanti e le produzioni personali, qui lo vogliamo ricordare così, con alcune sue parole che restituiscono, insieme al mestiere dello scrivere, anche il mistero di chi sceglie di farlo.
“…Il problema del tradurre è in realtà il problema stesso dello scrivere e il traduttore ne sta al centro, forse ancor più dell’autore. A lui si chiede di essere insieme, e a freddo, Napoleone e il suo più infimo furiere, di avere lo sguardo d’aquila dell’uno e la maniacale pignoleria dell’altro. Gli si chiede di dominare non una lingua, ma tutto ciò che sta dietro una lingua, vale a dire un’intera cultura, un intero mondo, un intero modo di vedere il mondo. E di sapere annettere imperialisticamente questo mondo a un altro del tutto diverso, trasferendo ogni sfumatura, registro, accento, allusione, tonalità entro i nuovi confini. Gli si chiede infine di condurre a termine questa improba e tuttavia appassionata operazione senza farsi notare, senza mai salire sul podio o a cavallo. Gli si chiede di considerare suo massimo trionfo il fatto che il lettore neppure si accorga di lui.
… Il traduttore è l’ultimo, vero cavaliere errante della letteratura.”
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