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CAVANI E LA PRODUTTIVITÀ DEI FERROVIERI Senso di impotenza e frustrazione stanno minando alla base la struttura organizzativa della aziende di trasporto pubblico in Campania Come tutti i tifosi (e non) sapranno, con l’imminente firma del nuovo contratto che lo legherà al Napoli fino al 2017, Cavani avrà diritto ad un ingaggio record: circa 5 milioni di euro netti a stagione. L'accordo tra le parti è vicinissimo e chiuderà una volta per tutte (si spera) la telenovela di mercato su Edinson Cavani. Il club azzurro, però, alla firma potrebbe chiedere una garanzia: Cavani deve dare la parola d’onore che sino alla scadenza del nuovo contratto, tra ben 5 anni, non chiederà altri ritocchi di ingaggi. Basta aumenti: quello di quest’anno, infatti, è il terzo contratto in tre anni per il Matador. Questa volta, occorre un gentlemen agreement. Cavani pare abbia detto sì. Ma c’è da giurare che “el matador” manterrà la parola solo fino a quando uno sceicco non lo solleticherà con una proposta ancor più allettante. Eppure, i l contratto è un accordo bilaterale che dovrebbe legare le parti al rispetto di quanto stabilito. Ma di bilaterale, peraltro, c’è ben poco. Come la storia calcistica ci insegna, la regola vale solo per la società calcistica che è obbligata a corrispondere al calciatore fino all’ultimo euro, anche in presenza di incidenti o scarso rendimento del giocatore. I calciatori, invece, non appena le prestazioni diventano superiori alle attese – e questo è il caso di Cavani – attraverso i loro procuratori si affrettano prontamente a battere cassa, rinegoziando i termini economici del contratto in essere, con il solo alibi di un prolungamento temporale. E così, i contratti finiscono per essere carta straccia, visto che i tifosi, pur di conservare il proprio idolo, chiederanno ai proprietari della squadra del cuore di aprire comunque i cordoni della borsa. Ma tutto questo, ovviamente, non vale per tutti i lavoratori. Certo, i “lavoratori della pedata” non sono comuni lavoratori, ma è come se noi potessimo andare dal nostro datore di lavoro ed obbligarlo a cambiare in corso un contratto di categoria solo perché, che ne so, un macchinista porta il treno in orario a destinazione o un impiegato svolge correttamente una pratica. Nessuna rivendicazione salariare avrebbe la benché minima possibilità di essere chiusa favorevolmente, se si partisse da queste premesse. Eppure, dicevo, per i calciatori questo accade e nessuno, nemmeno noi a cui questa possibilità è preclusa, si indigna per tale evidente disparità di trattamento. Dalla vicenda Cavani vorrei, però, estrarre una serie di considerazioni che ci riguardano più da vicino. Innanzitutto, la prima generica osservazione è che la caratteristica fondamentale di questa fase storica è data dal crescere illimitato della diseguaglianza. In tutti i paesi, una piccola percentuale di popolazione detiene la gran parte dei redditi e dei patrimoni. Ma non solo: alcuni lavoratori privilegiati possono sottrarsi alle regole contrattuali e godere dei vantaggi dell’economia di mercato. La maggioranza, invece, vede ridursi il proprio potere contrattuale e vede una regressione delle proprie spinte motivazionali economiche e di condizione lavorativa. È pur vero, peraltro, che quelle diseguaglianze di trattamento vengono giustificate dal voler “premiare” lavoratori capaci di migliori prestazioni e maggiori motivazioni. In questo senso la trattativa Cavani è emblematica. L’uruguaiano è senza dubbio motivatissimo, e le sue prestazioni sono sempre ad alto livello, sia qualitativo che quantitativo. Tutto ciò gli consente di avere “il coltello dalla parte del manico” e, giustamente, ne approfitta. Per noi comuni mortali, invece, le motivazioni e le relative prestazioni non hanno solitamente alcun peso sui livelli retributivi. Le motivazioni che spingono ognuno di noi ad impegnarsi nel proprio lavoro sono le più varie e, spesso, dipendono da fattori organizzativi, non solo individuali. Si può essere motivati, ovviamente, da spinte economiche ma anche (e talvolta soprattutto) da altri fattori che dipendono dal contesto organizzativo e dalla cultura d’impresa. Gli aumenti retributivi non bastano da soli a rendere un lavoro gratificante. Senso di appartenenza, promozione delle proprie capacità personali, sicurezza del futuro sono valori sempre più necessari ed apprezzati. In questo momento della storia aziendale, chi ci guida fornisce uno scenario che determina, invece, un forte senso di dissonanza cognitiva nella nostra percezione. Segnali negativi - spesso contrastanti - contribuiscono a distruggere quel residuo di motivazioni extra economiche che ancora persisteva. Peraltro, non sempre questi manager sono interessati alle sensazioni e alle percezioni dei propri collaboratori. Così, la soddisfazione lavorativa, la motivazione, la giustizia organizzativa sono pressoché azzerate. Questi valori positivi hanno lasciato il campo alla frustrazione, al senso d’impotenza, alla deriva egoistica ed al caos organizzativo. Tutto langue, ogni attività procede per forza di inerzia, il distacco morale ed etico dalle sorti dell’azienda è imminente. Il clima è da “8 settembre 1943”, anzi da Caporetto. La disfatta, seppure non ancora realizzatasi, è sempre più presente nella percezione e nell’agonizzante attesa generale. Esiste, come accennavo, una dissonanza cognitiva, quella che ci fa apparire disallineati i nostri comportamenti individuali rispetto a quelli che dovrebbero essere i valori su cui un’azienda sana deve fondarsi. Quello a cui eravamo abituati a credere come giusto e sano ci appare, ora, incongruente e privo di futuro. A questo scenario spersonalizzante, va aggiunta anche una sorta di dissonanza decisionale che vede gli stessi manager/politici preda di un pericoloso disallineamento tra le azioni che dovrebbero mettere in atto e quello che poi effettivamente decidono di fare. Ovviamente, tutta questa confusione incide notevolmente sulle prestazioni della macchina organizzativa. È vero, peraltro, che in media nessuno di noi svolge attività di così alto profilo e complessità da richiedere un quadro motivazionale alla Cavani. Ma, sicuramente, buona parte del costante peggioramento della performance qualitativa è figlia di questa regressione motivazionale che ci pervade. I problemi non sono solo di carattere tecnico-finanziario, ma anche, e forse soprattutto, motivazionali. Sulla carenza delle motivazioni individuali incide sicuramente il dato economico, ma soprattutto il senso di insicurezza e di incertezza. E questo si riverbera sulla dimensione contestuale ed etica della prestazione lavorativa. Tutti oramai, nella migliore delle ipotesi, si limitano a fare strettamente “il proprio lavoro”, senza alcun coinvolgimento emozionale e, talvolta, precostituendosi un alibi morale per giustificare pratiche scorrette o addirittura ai limiti del codice penale. È naturale, infatti, che un contesto demotivante generi corruzione e sprechi. Le nostre prestazioni lavorative sono dominate dalla presenza tecnologica e lasciano poco spazio alle capacità individuali. Eppure, ciascuno di noi sa bene che una parte consistente della qualità del servizio offerto passa attraverso un forte coinvolgimento personale, e ciò a qualsiasi livello della struttura organizzativa. La perdita del “senso di appartenenza” – primo effetto della crisi organizzativa – contribuisce al deterioramento del clima lavorativo e, conseguentemente, al definitivo scadimento della qualità. Non si fa più squadra, nessuno prende iniziative, tutti fanno solo il “compitino”, preservando energie mentali, fisiche e motivazionali per i “tempi peggiori” che ci attendono. Per cambiare registro in corsa, e per evitare il definitivo scollamento organizzativo, occorrerebbe partecipare ai lavoratori obiettivi raggiungibili che possano diventare fattori aggreganti. Occorre, cioè, ridare aspettative positive e possibili, su cui ricostruire un sistema motivazionale che, come pare evidente a tutti, non può essere puramente economico. Per restare nella metafora calcistica, un Cavani premiato economicamente non può da solo vincere le partite se dirigenza, allenatore e tifosi non sanno costruirgli attorno un sistema che punti all’efficienza mediante il senso di appartenenza (l’attaccamento alla maglia). Ciro Pastore – Il Signore degli Agnelli
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