Dopo la trasferta americana (non è vero, lui ormai abita lì) che ha regalato al pubblico due film coevi parecchio chiacchierati per la loro lontananza dal solito stile barra interessi tematici (Il cattivo tenente e My Son, My Son, What Have Ye Done), Herzog ritorna a fare quello per cui è diventato famoso, il documentarista, a 3 anni di distanza da Encounters at the End of the World (2007).
E lo fa, almeno così si dice in rete, per puro caso, è bastato leggere l’articolo di un giornale sulla grotta Chauvet che gli ha fatto pizzicare all’impazzata il campanello della curiosità. Dopodiché ha fatto qualche telefonata alle persone giuste e il regista tedesco ha ricevuto il nulla osta per poter entrare all’interno della caverna.
Che cosa vi sia di così prezioso all’interno di questa cavità naturale è presto detto: dipinti scoperti accidentalmente nel ‘94, dipinti rupestri dal valore incalcolabile poiché disegnati dalla mano di artisti vissuti trentamila e passa anni fa. Probabilmente la questione sarebbe risultata interessante anche se il sottoscritto fosse sceso là sotto con il suo cellulare dato che la grotta è chiusa al pubblico per preservarne l’ecosistema, ma Herzog, checché se ne dica, sa essere sempre lui, almeno per buoni tratti, e in questa splendida valle francese ci arriva volando.
Quello che ci è permesso di vedere sulle pareti è semplicemente straordinario.
Le pitture rappresentano principalmente degli animali e solo in un unico caso una figura metà donna metà bestia, ma quella che può sembrare soltanto la sagoma di un bisonte, di un cavallo o di una iena, è invece la chiave che schiude porte sull’abisso del tempo.
Le immagini sono delle istantanee che fotografano un mondo fatto soltanto ed inevitabilmente di supposizioni, cosicché il valore zoologico, archeologico ed etologico schizza a livelli epocali, donando a questa caverna l’effige di “stanza del tempo”, luogo, come Herzog dirà nel suo inglese teutonico, without time and space.
Ma il buon Werner fa di più perché decide di proporre il tutto attraverso la tecnologia del 3D.
Se tale trovata sia funzionale o meno non è possibile riferirlo in questa sede, ma l’intento è perlomeno lodevole perché l’autore chiude un cerchio dal raggio quasi sconfinato che fa perfettamente combaciare due tecniche di rappresentazione agli estremi temporali: qui le opere di uomini primitivi, vestiti di pelli e coi capelli lunghi tutti arruffati, si trovano fianco a fianco con la moderna visione stereoscopica della settima arte. Per una volta, parere personale, il 3D ha un significato più denso che va oltre il vacuo intrattenimento. L’aspetto maggiormente divertente è che comunque tali disegni in alcuni casi presentano segni inequivocabili di uno sfondamento concettuale della dimensione visiva, difatti alcuni degli animali ritratti hanno più di 4 zampe, e ciò non è dovuto ad una particolare razza ora estinta, bensì al fatto che gli uomini del tempo tentavano di riprodurre sulla pietra la cinesi del movimento. Il regista definisce tale fenomeno proto-cinema, e ciò pone una riflessione non da poco: quanto siamo sapiens noi uomini odierni?
Fin qui le note positive, tuttavia si diceva poco fa che Herzog a tratti sa essere sempre lui (ironico, curioso, più attento all’uomo – “chissà se piangevano la notte, se avevano paura” – che ai fatti storici), ma in altre occasioni cede il passo e mostra nel complesso un’organicità leggermente carente. Vi sono a ben vedere delle diramazioni all’interno del documento molto superflue, quasi estranee ed ininfluenti per quanto concerne il tema della caverna Chauvet.
Le propaggini sui manufatti rinvenuti altrove, sul tizio che fiuta le cavità dal di fuori o su come cacciavano i nostri antenati, sono tutti frammenti che odorano di brodo allungato. Il che un po’ dispiace perché anche se fosse stato più breve il lavoro di Herzog per forza di cose si sarebbe fatto ugualmente ammirare.
A parte questo, bellissimo il colpo di coda nel finale con l’innocenza del coccodrillo albino (una sequenza veramente Herzog vecchio stile) che si trova laddove millenni prima vivevano creature magari non troppo diverse da lui, come non lo è l’uomo di Neanderthal da noi.
Quanto tempo è passato? Ere ed ere si direbbe, o forse solo un’ora e mezza, giusto la durata di questo film.