Cavour Cacciatore di Vampiri 2 – Capitolo 2: L’Altrove

Creato il 27 gennaio 2013 da Elgraeco @HellGraeco

Eccoci con un nuovo capitolo di Cavour, che quest’anno prosegue con ritmi rilassati, ma meditati. Siamo a un punto di svolta, per cui spero vi piaccia.

Soundtrack

Attenzione! La seguente è un’opera di fantasia dai contenuti violenti, inadatta ai minori di spirito.

Nell’altrove

La pancia freme, oppressa d’un dolore marcio. Le nari afflitte dal merdaio in cui affossiamo fino alle caviglie.
Germaine, spalle alla galleria, trema fissando la bambina e la sua progenie timida, che fa vibrar le piccole ali.
Pietro si scrolla, l’interesse è tutto alla battaglia combattuta di sopra, mentre una voce di donna urla dalla grata d’ammazzare un bersaglio. Prepara l’altre botti, segnate col rosso.
Si china e armeggia con l’imbragatura. S’arresta, inginocchiato, abbarbicandosi al bordo. Spruzza vomito bianco, lo trattiene, combatte, l’ingoia e smorza un lamento che sa di bestemmia feroce.
Sulle braccia di Germaine le vene ardono come i glifi tracciati sul passaggio, tutt’intorno.
Una manina spinge sulle reni, è la Signora. Mi volto, gli occhi bianchi sotto una frangia di riccioli. Col sorriso cattivo suggerisce d’affrettarmi.
Siete con me, non temete, rimbomba nelle tempie. Dentro il mio sangue, dentro il tempo, correte!
Metto il piede sulla botte, mi sollevo, spicco un salto. M’affetto alla scaletta di ferro che lungo il buco porta alla grata. Faccio leva sulle braccia, guadagno la cima e un appoggio per le punte degli stivali.
Con l’avambraccio scosto la grata pesante. Un volto appiattito, d’oro, con la barba rigata che spunta dal mento come un corno, mi fissa con orbite vuote, dalla forma d’un coperchio d’un sarcofago gettato a terra.
Due coppie di sandali s’inseguono veloci, facendo tintinnare pensagli, lasciando orme di sangue.
La testa di Germaine cozza contro un lastrone di pietra, tra macchie e sarcofago, gli occhi immoti. Il collo ruotato, il busto che prosegue verso l’alto. La nuda spalla coperta di rivoli rossastri. Le gambe sciancate sussultano, brandite, mentre l’essere putrido dalle orecchie appuntite e le pupille morte lorde di pus, morde e divora nel mezzo, scuotendola. Biascica e cola livore dalle labbra storte in un grugno di godimento.
Un grido accompagna la punta di un’asta, che gli buca il collo, proprio sotto al mento, spruzzando bile e sangue nero.

Guardo in basso, Pietro ha finito di legare le botti. Scorgo un lembo della gonna di Germaine, è ancora lì, attaccata al muro.
Il fiato m’esce da solo, insieme al cuore che batte impazzito e mi fa la testa leggera.
La fitta al petto si rinforza, quando riconosco la pancia, gli stivali, la fibbia della cintura, la coppia di pistole alla cintola con la C sul calcio. L’uomo ne impugna una, la punta al capo del divoratore, spara. Occhiali stretti, barba rossiccia striata di grigio, bocca spalancata.
Lo sbuffo di fumo s’avvita intorno al mostro che guizza, torcendosi e scattando. Quel che resta di Germaine cade, piegata come una bambola di pezza, spargendo viscere dalle pudenda lacerate.
Il mostro afferra un braccio del Conte, strattona, lo trancia insieme al giaccone scuro. L’urlo che sale dalle labbra di quello finisce per uscire dal collo e volare via lontano, insieme alla scia di sangue che segue la testa.
Perdo la presa, cado. Atterro sul piede, con tutto il peso, sollevando un’onda di merda. Il morso del dolore m’arriva fino all’inguine.
Pietro m’afferra dal colletto, tira su strappandomi alla melma che m’ha coperto quasi tutto, mi dà uno scossone.
«È-è lassù» balbetto, «Ma…»

Artwork by Giordano Efrodini

Mi molla con uno spintone che mi fa barcollare, si rivolge a Germaine battendo il palmo sul coperchio della botte. Lei si distoglie, deglutisce.
Pietro fa cenno di salire, poi fa un balzo fino alla scaletta e si tira su. Dall’orlo del buco spunta poi la sua mano, apre e chiude le dita, rapida, un invito.
Germaine solleva il barile dall’imbragatura, gliela porge, poi l’aiuta spingendolo.
M’avvicino a guardare in alto, sento il suo fiatone, lo vedo sollevare la grata con la forza delle spalle, poi issarsi, e con lui il barile. Si sposta di lato, scompare.
Due colpi secchi sul legno, il botto d’una rivoltella, poi il boato che rimbomba nella galleria, la luce che si riflette persino sull’acqua melmosa e la fa vibrare. Due fili di polvere si staccano dalla volta.
La Signora bambina ride col gelo nella voce. La guardo scomparire abbracciata alla sagoma d’un incappucciato, il capo coperto da un sacco di iuta su cui è disegnato un volto sorridente, le croci sugli occhi.
Germaine respira forte, una ciocca di capelli nell’angolo della bocca.
«Aiutami a risalire» faccio.
Annuisce, mette le mani a staffa.
Lo slancio che mi restituisce è tale che sporgo dall’apertura e mi appendo allargando le braccia.
L’aria nella sala di sopra è satura dell’odore di polvere da sparo.
Voci sommesse bisbigliano accavallandosi. Cultisti di qualche tipo, glabri, ammassati dentro tonache bianche, fanno scudo a una donna dalla pelle di bronzo e dai capelli neri.
Esco, estraggo le pistole. Mando un fischio a Germaine.
La stanza riluce di glifi segnati ovunque, dalla terra al soffitto, color della brace rossastra, stanno estinguendosi.
Il Divoratore che mi ha ucciso è li nei pressi, nella pancia e sul petto buchi grandi quanto pugni, in cui si accumula liquido scuro, denso. Fa le bolle e rumore acquoso. Un chiodo conficcato nell’occhio, una scheggia di ferro nella guancia. M’avvicino, lo sovrasto, punto la pistola.
La palla crea un buco perfetto nella fronte, l’orlo frastagliato.
Alle mie spalle Germaine strilla. Vicino c’è se stessa, smembrata. Il baratro della follia si distende nei suoi lineamenti, artiglia gli occhi costringendoli a stare spalancati.
Accompagnata da passi di stivali, la donna dalla pelle scura si fa dappresso. Sfodera un sorriso. «Siete più giovane» osserva, «Che stregoneria è questa?»
Allungo il braccio sinistro e premo il grilletto. La centro sulla tibia. S’accascia in uno sbuffo d’abiti e di fumo.
Il brusio degli adoratori cresce nello spavento.
«Maledetto! Figlio d’un cane!» bercia la donna, poi rantola.
Poco più in là giace riverso Pietro. Dalla schiena frastagliata di schegge spunta uno dei bastoni adornato di ciondoli.
La sagoma d’un uomo lo raggiunge, si schiarisce la gola. Sputa accanto al corpo, estrae la lancia e lo ribalta con lo scarpone. Sta a osservarlo, poi si sposta, mettendosi nel fascio di luce d’un braciere.
Il volto grifagno e invecchiato termina in una smorfia dura, coperta da barbetta bianca. Mi rivolge un cenno di saluto.
«Che cazzo ci fai ancora qui?»
E la mia voce è l’unico suono che s’ode, in ques’altrove.

continua…

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