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C.Cimò intervista Nicola Lo Bianco

Creato il 18 giugno 2011 da Nicolaief

In occasione della presentazione del libro LAMENTO RAGIONATO SULLA TOMBA DI FALCONE a Termini Imerese

C.Cimò intervista Nicola Lo Bianco
1) A quando risale la scoperta della sua “vocazione poetica” ?
1)La mia prima poesia è legata al dolore per la perdita di un fratello, con il quale, ragazzini, avevo imperdonabilmente bisticciato qualche mese prima nel corso di una partita di pallone che, come si sa, per i ragazzi diventa il centro del mondo.
Quella poesiola mi fece capire che la poesia, la parola, oltre che conforto, può essere correzione del proprio comportamento.Il tema della morte, la tensione drammatica, ma anche liberatoria, tanto presente nella mia poesia, forse, ma dico forse, è da attribuire a quell’evento.

2) L’opera presentata lo scorso 5 maggio a Termini Imerese, pur essendo suddivisa in varie parti, sembra presentarsi al lettore in modo “continuo”, come un flusso ininterrotto di sensazioni e di emozioni. Le tematiche del dolore esistenziale e della spasmodica ricerca della giustizia costituiscono il filo conduttore che lega abilmente ed in modo sottile e sfumato le varie sezioni dell’opera. Quando ha composto i versi dei componimenti che poi ha raccolto in un’unica opera, ha subito deciso di inserirli in un unico lavoro editoriale o ha maturato tale decisione “a posteriori”?
2)Mi accorgo a posteriori che quei componimenti hanno una matrice comune, nascono da uno stesso stato d’animo, creano figure che hanno dei tratti in comune, non tanto nei caratteri, quanto nella condizione umana e sociale.
A posteriori, mi accorgo che la condizione è quella degli “esclusi”, dei “paria”, fuori della “normalità”, per cui i loro tratti e le situazioni che vivono sono per certi versi vicini alla “follia”, quella “follia” che per Pirandello era, alla fine, l’unico modo di essere se stessi, persone autentiche e non regolate dall’ “esterno”.
Ecco, potrei aggiungere che i “paria”, i diseredati, i senza patria, l’umanità che soffre fino in fondo l’essere in questo mondo, sono forse, in mezzo alla bruttezza camuffata di bellezza, alla crudeltà celata dietro un’apparente umanità, la vera bellezza di questo mondo, dalla quale abbiamo molto da imparare, perché genuina e non compromessa.Mi viene sempre in mente la figura della bambina africana, che invitata da un occidentale ad esprimere un desiderio immediato, sottovoce dice: vorrei una caramella.
E’ poi naturale che abbiano un senso spontaneo, non idelogico, direi quasi istintivo della giustizia, cioè una sensibilità acuta di fronte ai soprusi.Non solo, ma vivere nell’ingiustizia offusca l’dentità personale.Nel Lamento Ragionato il Vecchio dice al dott.F.: “io, se non ottengo giustizia per mio figlio, chi sono?”

3) Il suo lavoro è costellato di interrogativi senza risposta e di momenti di tensione emotiva che, a partire da laceranti situazioni di dolore, offrono al lettore importanti spunti di riflessione. Forse nel mondo attuale non si dedica abbastanza tempo all’introspezione e le occasioni per fermarsi a riflettere non sono sufficienti a far acquisire a ciascuno di noi una conoscenza approfondita di se stessi e della società che ci circonda. Qual è il suo pensiero relativamente a questo?
3)L’attitudine al pensare forse anch’essa s’è fatta così insistente dentro di me, perché talune esperienze della mia fanciullezza e giovinezza mi hanno “costretto” a non “lasciar perdere”.Tanti accadimenti non potevano rimanere senza risposta, e così dal dubbio prammatico, ho preso l’ “abitudine” a interrogarmi un po’ su tutto, ma soprattuto sulla vita di coloro che don Helder Càmara definisce i “senza voce”.
Certo non dobbiamo presumere che tutti si mettano lì a pensare, non tutti hanno questa attitudine, ciascuna persona ha una vocazione sua in ogni senso rispettabile. Quando si dice che tutti dovrebbero soffermarsi a pensare s’intende di non girarsi dall’altra parte, di non occuparsi solo e unicamente dei propri affari, s’intende essere consapevoli che gli altri sono importanti almeno quanto la propria persona:ci sono ed ho questa identità, perché ci sono gli “altri”.
L’osservazione che tu fai sulla mancanza di tempo è fondamentale:a ben riflettere la distribuzione del tempo nella nostra civiltà(?) rende prigioniero l’uomo:il lavoro lo occupa interamente, lo occupano interamente i suoi affari o i suoi problemi di sopravvivenza, o i suoi “divertimenti”, o il sesso, o le corna del diavolo…sembra che non sia più padrone di se stesso, non possiede, è posseduto.
Hannah Arendt, la grande pensatrice tedesca, ebrea, sfuggita alla persecuzione nazista, autrice di quel libro fondamentale che cerca di capire l’orrore dei regimi totalitari, dei lager, LE ORIGINI DEL TOTALITARISMO,che invito a leggere o a rileggere insieme ad altri suoi scritti, dice chiaramente che simili regimi si affermano quando “si rinuncia a pensare”.
4) Quanto la sua professione di docente ha influito sulla sua attività di compositore poetico e teatrale ed in che misura la sua passione per la scrittura e per il teatro ha avuto delle ripercussioni nella costruzione di un dialogo educativo-didattico con i suoi alunni?

4)Mi riconosco il pregio di avere trasferito nell’insegnamento tutto me stesso, la parte credo migliore della mia personalità umana e culturale:tutto quello che scoprivo, che andavo apprendendo, lo trasmettevo ai miei alunni, perché debbo dire che per me l’insegnamento era come una forma di poesia, che di per sé è un atto d’amore.
E questo significa, com’è appunto per l’arte, rigore e creatività, auscultazione non di semplici alunni, ma di esseri umani che si dispongono fiduciosi, significa essere se stessi fino in fondo, senza mai tradire quella fiducia o le giovanili aspettative di sapere e di capire.Il falso in arte è subito scoperto, com’è anche nel rapporto tra docente e allievi.Spacciare una cosa per un’altra è la fine del rapporto onesto umano e didattico.So di tanti colleghi che fanno le parti delle madri o dei buoni padri, o ancor peggio, dell’amico più grande e saputo.Io ho sempre considerato questo scambio di ruolo una iattura.Ci deve essere, come nella poesia, un rapporto d’“amorosi sensi”, una simpatia umana, una fratellanza nel lavoro, ma mai uscire fuori delle righe, della strofa:se è una terzina, la puoi riempire di tanti contenuti, ma sempre terzina deve rimanere con il verso di undici sillabe.
L’avere poi frequentato un po’ il teatro mi ha aiutato a capire che il ruolo del docente è simile per certi versi a quello dell’attore:ci vuole personalità, capacità di attrarre l’attenzione, e perciò saper leggere e recitare, sapere occupare lo spazio, aiutarsi con la mimica del corpo e del viso, ecc.Ma, si capisce, che tutto questo non era preparato, non c’erano prove dietro le quinte, era spontaneo, quasi sempre estemporaneo, così come dettava l’ “ispirazione” del momento.Tra l’altro, il teatro, secondo la mia esperienza, è la più completa forma di insegnamento, dalla memoria alla conoscenza intrinseca del testo, investe il corpo e la mente, modella la sensibilità di ciascuno, ecc.
Qualcuno dei miei alunni ricorderà, del resto, che per qualche anno, abbiamo messo in scena testi tratti dai programmi curricolari, ed è stata un’esperienza sicuramente positiva.
Se nell’altra vita diventassi Ministro della Pubblica Istruzione, abolirei il 90% delle scartoffie burocratiche e “imporrei” la messinscena di alcuni testi poetici, come “imporrei” dei corsi obbligatori di lettura e recitazione a tutti i docenti.

prof.Nicola Lo Bianco


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