Da qualche settimana c'è un nuovo locale privo di personalità proprio sotto casa mia. Un posto da aperitivi, fornito di una clientela composita.
Ci sono stata due volte.
La prima:
Non avevo voglia di discutere - ci sono giorni in cui pare che non si possa fare altro, quasi fossero gli dei ad imporlo;
Un tempo ero capace di chiudermi ermeticamente.
Il mio silenzio, gravido di parole.
Cosa ne è stato?
Al primo sollecito,
ribattevo
perdendo mano a mano la mia compostezza.
Nel giro di pochi giorni, due persone diverse mi hanno detto che dovrei essere più rocciosa, e
argomentare fino in fondo,
anziché crollare,
perché crollando la dò vinta al mio interlocutore.
perché è chiaro che dentro di me esistono le risposte giuste,
le risposte adeguate.
Risposte più adeguate
della furia con cui sputavo richiami all'ordine,
della frustrazione con cui sbraitavo la mia urgenza di cambiare registro.
Sussidiarietà. Cura. Donne. Anziani. Bambini. Famiglie. Terzo settore. Sostenibilità economica.
Come al solito, non avevo dati alla mano.
Pensavo a mia nonna.
Cecilia.
Il primo giorno di lezione viene insegnato che non si può generalizzare da un singolo caso. Non si può generalizzare dalla propria esperienza. Ci vogliono i dati. Dati alla mano. Sciorinare dati. Saper leggere i dati.
Alzavo la voce oltre il livello che fa di me una donna isterica;
pensavo a mia nonna.
Cecilia.
Nella furia,
reminiscenze di studi consultati
due anni fa,
quattro, cinque anni fa,
sublimati sulla mia lingua.
Il singolo caso posto all'interno di un contesto.
Mia nonna.
Non osavo farne il nome.
Seduta su un marciapiede,
versavo le necessarie lacrime
della creatura furiosa
allevata tra le mie costole.
Dentro al locale
qualcuno si rivolgeva all'altra ragazza dall'aspetto fragile al mio tavolo,
"Adesso facciamo crollare anche te, eh?"
La seconda:
Seduta su un marciapiede
con la mia birra,
rispondevo al telefono.
Madre diceva:
"Vestiti presentabile. Parla anche tu con il medico".
Cecilia ed io, in atrio, di fronte allo specchio dalla cornice dorata.
Ho dormito un quarto d'ora sul divano, prima che fosse ora di partire.
Mi sono appisolata su di un pensiero dolce, poco dopo aver assorbito il rintocco della pendola. Le due e mezza.
Cecilia mi intima di pettinarmi e io mi rifiuto.
Mi infila le dita tra i capelli, per ravvivarli, come quando ero bambina.
Mi fa male;
quel dolore lieve e fugace mi trascina indietro di quindici anni.
Scegliamo l'auto con cui scendere a Schio.
La mia o la sua?
La sua.
Non ci salgo da anni,
sulla 500 bianca.
Sono di nuovo bambina.
Alla casa di riposo,
mio nonno Igino è seduto in un angolo,
con la sua bombola d'ossigeno.
Mi fa qualche domanda,
mi stringe la mano.
È confuso riguardo allo scorrere del tempo,
ma non manca di farmi sentire in colpa,
perché non mi sono ancora laureata.
Mio nonno Igino
ha la seconda elementare.
In garage
le sue cose
sono state etichettate
a mano,
con grafia incerta,
i nomi di ogni oggetto
in dialetto.
Mio nonno Igino
mi insegnò a scrivere in stampatello
maiuscolo e minuscolo
prima che cominciassi le elementari.
Mio nonno Igino
è diventato sempre più cattivo
con il passare del tempo.
Per anni ho ignorato il modo in cui trattava Cecilia.
Per anni ho ignorato il modo in cui trattava mia nonna.
Non sapevo cosa fare.
Mio nonno Igino
mi insegnò ad andare bici,
mi regalò la prima senza rotelle,
e l'ultima.
La prima era grigia, screziata di rosa.
L'ultima è blu.
Era la sua.
Mio nonno Igino
si crede patriarca.
Lo guardo
e vedo i mali del patriarcato.
Mio nonno Igino
non voleva che andassi negli Stati Uniti,
non voleva che andassi a vivere a Trento.
Mio nonno Igino,
per ridere,
diceva che avrebbe fucilato i miei ragazzi,
se non avessero fatto i bravi.
Mio nonno Igino
dichiara: "Domani torno a casa".
Il dottore ci accoglie nel suo studio.
Non mi stringe la mano.
Fin da subito,
registro ostilità nei confronti di Cecilia.
Le dice: "Igino sta bene. È quasi lucido ormai".
Due giorni fa Igino ha chiamato a casa
e ha urlato,
ha preteso che Cecilia tornasse a fargli da serva.
Le infermiere lo hanno ascoltato.
Hanno ascoltato,
eppure la osservano con malcelato disprezzo.
Il dovere di Cecilia è quello di sacrificare la propria vita
per un uomo che non ha mai smesso di insultarla,
di sfotterla,
per un uomo che ha preteso
servigi
e silenzio.
Cecilia ascolta il dottore che dice:
"Non possiamo tenerlo qui,
se non vuole.
Dobbiamo rispettare i suoi diritti".
Cecilia pensa che ha servito Igino per cinquantasette anni,
Cecilia pensa a decenni di duplice lavoro:
in fabbrica e a casa.
Cecilia ha gli occhi lucidi,
proferisce parole spezzate,
perché è stanca,
umiliata,
e vecchia.
Per un istante, la guardo.
Apro la bocca
per chiudere quella del dottore.
Sono un animale inferocito
dalla lingua addomesticata.
Mi osservo
assumere un ruolo inedito.
Sono adulta.
Conosco le parole adatte.
Il dottore ha lo stesso sguardo innocente
del medico di base che
anni or sono
si rifiutò di prescrivermi
la pillola del giorno dopo.
Mi disse: "Mi dispiace tanto".
Il dottore calpesta le mie frasi
non appena mi mostro in grado
di fargli perdere tempo.
Sono un animale inferocito.
Mi trattengo dal ridergli in faccia
quando torna sull'argomento dei diritti umani
di mio nonno Igino.
"Certo", rispondo, "i diritti umani di mio nonno Igino"
che potendo lascerebbe Cecilia per strada,
anche se metà della casa la pagò lei,
con i suoi soldi,
con i suoi anni di lavoro in fabbrica.
I diritti umani di mio nonno Igino,
che sotto i miei occhi le urla, "Chi ti ha messo in testa queste idee?".
I diritti umani di mio nonno Igino,
prevedono che ci sia la moglie a servirlo.
Cecilia
sotto i miei occhi
gli urla,
"hai smesso di avere una serva,
non sono più la tua serva".
Cinquantasette anni di lavoro gratuito.
Il dottore taglia corto.
Fa spallucce
quando con parole taglienti
gli ricordo
che mio nonno Igino
non è più lucido,
checché se ne dica,
che mio nonno Igino
non è più autosufficiente,
che mio nonno Igino
è capace solo di avanzare pretese
ed imbrigliare
e distruggere,
che mio nonno Igino
è un peso insostenibile
sulle spalle fragili di Cecilia.
"Ma questa non è una struttura adatta", dice il dottore.
"Se volesse, potrebbe restare qui", si contraddice il dottore.
Sulle mie spalle salde,
sento il peso della stanchezza di Cecilia,
che è diventata silenziosa,
che si è affidata a me.
Le case di riposo hanno una duplice utilità sociale:
l'assistenza agli anziani malati e non autosufficienti,
il sollievo delle famiglie dalla cura dei suddetti.
È questo ciò che dico,
inferocita,
prima che il dottore ci congedi.
Gli stringo la mano
forzatamente
per non lasciargli il potere di ignorarmi.
Mi dà del tu
per costringermi alla piccolezza
per sminuirmi
per sminuire le mie parole taglienti.
Cecilia ed io mentiamo
nel riportare ad Igino quanto è stato detto
nello studio del dottore.
Egli ribadisce
che tornerà a casa
e chiama Cecilia pigra.
Gli chiudo la bocca
per la prima volta.