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Cemento (1.0): La città continua

Da Zarizin

Inizia qui una serie di racconti sul tema ‘Cemento’ . Gli altri saranno pubblicati a breve. Se vi sentite ispirati a creare dell’arte di qualsiasi tipo su questo tema, scriveteci, saremo ben felici di darvi spazio.

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Cemento. Nel cemento sono nato e sono cresciuto. E nel cemento, probabilmente, morirò. Nemmeno allora ci sarà spazio per me nella nuda terra. Cimiteri troppo affollati. Il governo ha imposto la cremazione obbligatoria. Le lapidi sono una reliquia di un doppio passato: un passato di vita, e un passato di terra.

Mia madre mi raccontava sempre come da bambino cercassi gli alberi. Ero così piccolo da non ricordarlo, ma ormai il suo ricordo si è innestato nel mio, ne ha costruito uno per me. Ho tre anni, tengo la mano a mia madre – il suo volto è un’ombra vaga e confusa. Cammino in un mondo infinitamente più alto di me. E cerco, tra gli occhi ciechi dei palazzi identici che si scrutano ai due lati della strada, una verde apparizione. Allora, come in seguito, la loro clorofillea frescura riusciva ad acquietarmi. Amavo i parchi, da bambino. Facevo lunghe passeggiate per arrivarci. Credo sia nata allora, nei miei peregrinaggi verso il verde, la passione del camminare. Mettevo un passo dietro l’altro, e ad ogni passo ero di un respiro più vicino alla mia meta. Ero padrone dello spazio: lo segnavo con i miei piedi, lo possedevo fisicamente. Non ho mai avuto questa sensazione, viaggiando su ruote. Mi sono sempre sentito una particella sballottata in turbini di tempo e spazio non coniugabili. Arrivavo al parco, infine. Cosa facessi? Niente. Mi sdraiavo sull’erba e assaporavo la beatitudine e il cielo. Quel cielo che, per me, è sempre stato rubato, strappato ai grigi contorni delle guglie dei palazzi. Non ho mai visto davvero le stelle. Le stelle sono un ricordo letterario, quasi una leggenda. Quaggiù la luce assordante dei lampioni ruba loro la vita.

Poi crebbi. E andando al parco vidi ciò che mi era a lungo sfuggito. Nulla era vero. Quell’erba troppo verde di una regolare annaffiatura era recintata in labirinti di aiuole. La via era segnata dai sentieri. Persino gli alberi erano stati posizionati ad arte, cosicché ognuno avesse il proprio posto e non ostacolasse il vicino. Anche agli alberi, anche a loro rubavano lo spazio.

Mi sentii soffocare. Scoprii, quasi all’improvviso, che ciò che avevo tanto amato era una finzione, una presa in giro, un luogo creato appositamente per gente come me. Quei sentieri erano appendici delle strade asfaltate, quegli alberi erano figli dei grattacieli.

Iniziai a desiderare un luogo integro, un luogo vero, un luogo dove la mano prepotente della civiltà non avesse contagiato la natura. Auspicavo uno spazio lasciato a sé stesso, senza scopo, senza altri fini che la sua esistenza in sé. Ma più mi guardavo attorno, più vedevo come lo spazio era stato colonizzato: ogni luogo, ogni angolo, ogni metro serviva, era iscritto nel grande progetto assurdo della città. Attorno a me non c’era nulla di simile a ciò che così disperatamente anelavo per liberarvi dentro la mia anima oppressa da muri.

Il mio stato emotivo peggiorava di giorno in giorno. Ero un adolescente sottile e turbato, che si aggirava inquieto. A volte trovavo riparo in un vicolo cieco, in una casa abbandonata, su una panchina degradata. Ma mi bastavano sempre di meno. Ormai i miei parchi, un tempo così amati, mi erano inavvicinabili: per essi provavo l’astio dell’ingannato. Li evitavo, e se li vedevo per caso qualcosa si attaccava al mio stomaco per non staccarvisi più. Quegli infantili sollievi erano una tortura, una volta svelata la loro miserevole bugia.
Alla fine decisi di andare a cercare il mio spazio. Un giorno, quasi per caso, misi un passo dietro a un altro e un altro ancora, e camminai sempre dritto fino ad oltrepassare l’invisibile confine tra ciò che era noto e ciò che non lo era. Da mesi ormai allungavo quel confine, lo espandevo inquieto, nella perenne inutile ricerca di luoghi da inventare. Allora lo superai con la sensazione definitiva di un soldato che passi il confine nemico, ed entri in terra straniera. Camminai e camminai. Le strade erano corridoi infiniti, sempre uguali e sempre diversi. Cambiavano le forme, i colori, le altezze, ma sempre erano strade e marciapiedi e giardini recintati e sempre io camminavo. Avevo fede. Di quelle ore di cammino non ricordo pensieri, solo il sole, il respiro, il formicolio agli arti, e la fede. Camminai ancora. Quando il sole inizò a calare, stavo ancora camminando. E quando finalmente mi fermai, c’era ancora strada davanti a me, e ancora case. La città continuava, forse per chilometri e chilometri, all’infinito. Guardai l’orizzonte, dove ormai i raggi disegnavano in controluce i profili delle case. Chiamai un taxi, e tornai a casa.

Adesso prendo ogni mattina la metropolitana, e osservo le facce delle persone. Sempre uguali, sempre diverse, come le case che abitano. Scendo alla mia fermata, salgo le scale mobili, vado al lavoro. Ho smesso di camminare. Ho smesso persino di cercare lo spazio libero. La mia ragazza ha appeso nel nostro trilocale una foto della savana, dove si vedono i leoni. Reliquie, come le lapidi dei cimiteri. So che nemmeno lì potrei trovare ciò che cercavo. Persino lì troverei turisti muniti di macchine fotografiche, escursionisti, hotel, muri, strade a delimitare la riserva. Sarebbe solo un nuovo, grande parco. Ormai ho capito. La città non lascia lo spazio a sé stesso: la città continua dappertutto.



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