E così, dalla primavera si arriva all’autunno inoltrato, senza pensare e senza pesare la stagione intermedia. I manifestanti di piazza Tahrir, alla riapertura del sipario, ci hanno accolto così come li avevamo lasciati: assiepati, chiassosi, incazzati. Eppure alcuni avevano davvero creduto alla fine dello spettacolo, alcuni persino al classico epilogo da “felici e contenti”. Complice un’estate arida di focus mediorientali, che tanto avevano caratterizzato la stagione televisiva dei primi mesi del 2011.
La bonaria distrazione di un’opinione pubblica internazionale precipitata a fare i conti con i problemi di casa propria, ha gradualmente portato la convinzione che i germogli di marzo avrebbero potuto davvero trasformarsi in frutti succosi, un po’ come quelli che il nuovo Jan Palach trasportava a bordo del suo famoso carretto ambulante, in Tunisia. Era la vigilia delle rivolte maghrebine, che presero il sopravvento sui media e che lasciarono l’osso a maggio, con l’estate alle porte e con molti dubbi lasciati a frollare insieme alle speranze, quest’ultime più indotte che spontanee.



Mohammad Hoseyn Tantawi
L’11 febbraio del 2011, in piazza Tahrir esplose la festa all’annuncio delle dimissioni del super Presidente egiziano, Cavaliere del paese nordafricano e Cavaliere di Gran Croce decorato di Gran Cordone al merito della Repubblica italiana. Il potere passò nelle mani di una giunta militare guidata dal Feldmaresciallo Tantawi. Tantawi, Comandante Supremo delle forze armate e reduce della prima Guerra del Golfo tra le fila della coalizione ONU, fu immediatamente onorato del benestare statunitense. La nuova Giunta militare fu cordialmente accettata dalle potenze occidentali, Israele compreso (che, anche recentemente, non ha mai mancato di apportargli il suo appoggio). Con la Clinton a fare gli onori di casa. Una casa da cui l’Egitto non è mai stato fuori, almeno da trent’anni a questa parte.

Camp David, 1978. President Carter with President Sadat of Egypt and Prime Minister Begin of Israel at the presidential retreat. (Jimmy Carter Library)
Dagli accordi di Camp David del 1978, infatti, lo stato nordafricano ha stabilito un solido patto di affari con Washington, portato avanti proprio grazie all’amministrazione Mubarak e alla potenza che l’apparato militare ha in Egitto. L’esercito egiziano infatti è una struttura ramificata e complessa, che non si limita ad occuparsi di Difesa. Le attività economiche delle forze armate hanno infatti sempre avuto grosso peso nella gestione del denaro pubblico. Una reticenza trascinata dalla “rivoluzione” pseudo-socialista di Nāṣer, negli anni ’50. Allora venne deciso di affidare all’apparato militare anche incombenze civili, soprattutto per tutto ciò che riguardava il sistema produttivo. Automobili, generi alimentari, edilizia, benzina. In Egitto c’è una forte influenza economica da parte dell’esercito, più forte rispetto a qualsiasi tradizionale immaginazione occidentale. In sostanza, in virtù di questi “poteri speciali” e in virtù dei suddetti accordi di Camp David (stipulati da Begin, Jimmy Carter e Sadat), Mubarak ebbe in gestione un copioso capitale statunitense. Si stimano circa 40 miliardi di dollari a partire dal 1979, con 1.300.000.000 stanziato per il 2010. L’obbligo, però, fu ed è sempre quello di reinvestire questo flusso di denaro in industrie a stelle e strisce (armamenti, in primo luogo). Il sacrificio militare egiziano è pari al 5% del Pil: l’Egitto è, infatti, un paese militarmente ben attrezzato.

Provando a quantificare e a collocare la portata della situazione – nonostante il peso del segreto militare impedisca di fare valutazioni precise sulla valenza reale dell’Esercito sul paese – si può dire, in base ad alcune stime dichiarate dalla National Defense University di Washington, che il Ministero della Difesa egiziano contribuisca a circa il 10-15% del Pil. Nel 2004 vennero attuate una serie di riforme di privatizzazione ideate da Gamal Mubarak, figlio di Hosni. Questo comportò un notevole aumento della forbice sociale anche all’interno delle forze armate. I soldi, insomma, finivano nelle tasche di famiglia e amici, mentre il resto della ciurma ne doveva raccattare le briciole.


In mezzo a questa nebbia, c’è comunque tanta puzza di fumo e poco odore d’arrosto. In un modo o nell’altro, l’amministrazione economica dell’apparato statale rimarrà sotto il controllo straniero che, attraverso un nuovo manager (ieri Mubarak, oggi Tantawi, domani chissà) continuerà ad investire nelle risorse di un paese dove i germogli di primavera non han fatto in tempo a sbocciare, che si son subito tramutati in ingiallite e cadenti foglie autunnali.
(Pubblicato su “Il Fondo Magazine” del 29 novembre 2011)