Anna Lombroso per il Simplicissimus
Non so se succeda anche a voi ma io incontro sempre più spesso brave persone molto incazzate: terribilmente disilluse dalla slealtà di èlite chiuse, dogmatiche e affette da un’indole paternalistica e professorale, o inesorabilmente tradite da poteri partitici e personali separati e ormai ostili all’insieme delle persone, o amaramente diffidenti di assembramenti sociali opachi e soffocanti. Brave persone responsabili, che pagano le tasse, fanno la fila, soggetti nuovi a un sentimento diffuso e sempre più percettibile di vergogna. Sono quelle che irriducibilmente hanno sempre votato, con condivisione o tappandosi il naso, con senso di appartenenza o per esprimersi contro e che ora vivono un appartato e livido scontento irresoluto, quel disincanto della democrazia che una volta veniva descritto come una malattia infantile dalla quale nessun giovane o vecchio paese è immune, ma che passa soprattutto in presenza di possibili attentati a diritti e libertà, individuali e collettive.
Vivono male l’inverno prolungato del loro scontento, il rafforzarsi del distacco delle istituzioni e delle rappresentanze, la cui fondamentale prestazione consiste nell’imporre misure impopolari, l’insultante corruzione impunita della quale la politica con i suoi costi si fa veicolo. E vivono altrettanto male la sprezzante accusa di antipolitica che viene proprio dal suo stesso pulpito. Non sono Antigone che all’implacabile logica nemico- amico e all’iperpolitica invasiva vorrebbe contrapporre una comunità d’amore e un’alleanza di intenti per la salvezza, non sono inclini ad affidarsi incondizionatamente a una ipotesi, non del tutto desiderabile, che cancelli le parti, la parzialità, ma anche la passione, così che ora sembra arduo fronteggiare quella aberrazione della politica che stabilisce il primato della “soggettività liberata da ogni vincolo di uguaglianza”, alienante nel suo manifestarsi, soltanto economico, all’interno dell’unico paradigma indiscutibile: il mercato.
Siamo tornati indietro anche in questo, all’Adelchi che riduce il mondo e le relazioni tra uomini al “non resta che far torto, o patirlo. Una feroce forza il mondo possiede”, alla moderna e rinnovata bestialità dell’homo homini lupus, dissuasiva dell’impegno “per non essere contagiati”, persuasiva di una rinuncia e di una critica così radicale da confermarne la cifra più distorta, quella del dominio, dell’ingiustizia, della sopraffazione. Ha ragione chi obietta che la politica reca in sé da sempre la cifra del vizio, del peccato, del dominio della hybris, e che ora questa stigma affiora nella sua volgare bruttezza o in una nuova “facilità” che la rende accessibile a inadeguati, nel migliore dei casi attrezzati solo di cognizioni tecniche. Dando luogo a due forme di antipolitica che possono anche integrarsi, quella della critica agli incompetenti e quella della protesta contro i disonesti. Ma in ambedue i casi si tratta dell’effetto finale della corruzione della politica, della sua estinzione morale e democratica.
C’è una grande disperazione in questa sottrazione di polis che le brave persone subiscono, in questa perdita di coesione che fa sì che l’unica condivisione sia quella della solitudine e l’unico progetto sia quello dell’isolamento, rabbioso o rancoroso, deluso o malinconico.
Soli, nell’astrazione virtuale e rapida dei processi, finanziari, se le transazioni sono istantanee, politici, se le mobilitazione avvengono nel web, si perde la percezione del tempo, dello spazio, della storia, dando ragione a chi ci vuole in un eterno presente, nella perenne immanenza di un mondo unico, di un pensiero unico ineluttabile e senza alternative, senza critica e senza dialettica.
Diventa quello l’astensionismo del quale aver paura, non quello delle società affluenti, sazie, disincantate, ma quello amaro dell’estraneità, della secessione, dell’abdicazione, della sfiducia nel ragionare insieme. E che è alimentato dal mantra del voto utile inteso come un sostegno doveroso, una legittimazione, alla quale non è lecito sottrarsi, della sopravvivenza del sistema come dello stato di necessità, o allo stesso modo dalla distopia di Grillo di un augurabile equilibrio sociale che può fare a meno della politica.
Mentre non dovrebbe far paura alle brave persone la non collaborazione, il desiderio di trovare spazi, luoghi e modi altrove, il bisogno vitale di indignarsi per trasformare la volontà espressiva in forza critica e energia creativa, quella di chi non ci sta, senza voluttà minoritarie, senza il lusso della marginalità contemplativa, perché la politica se la vuole riprendere. E potrà farlo se lo spazio, il luogo e il modo dove trovarla e ritrovarsi è quello del lavoro, dei diritti, dei beni comuni, dell’istruzione, della cultura, dell’ambiente e della bellezza intorno e dentro di noi.