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I Fratelli Taviani, che oramai apparivano da tempo buoni unicamente per le celebrazioni del loro cinema passato, hanno sorpreso un po' tutti, prendendo la logora idea di riprendere del teatro carcerario e modellarlo in una forma anche molto attraente, ma in realtà molto curata e approfondita, niente affatto superficiale, camuffandola da semi-documentario, intitolato “Cesare deve morire”, con il quale hanno addirittura vinto il recente Orso d'Oro al Festival di Berlino. "Semi", perché ogni singola riga del film appare accuratamente studiata, tra digressioni personali, pur se i detenuti e le loro incarcerazioni sono molto reali. La messa in scena della notissima tragedia di Shakespeare "Giulio Cesare", recitata come dicevo dai detenuti del carcere di Rebibbia a Roma, incarcerati a lunghe pene detentive anche per gravi reati legati alla criminalità organizzata, aggiunge quindi una notevole quantità di materiale extra-testuale, arricchendo notevolmente il contenuto del film, ma è incerto se i fratelli Taviani siano abbastanza chiari su ciò che tutti dovrebbero, o vorrebbero dire.< Il risultato è intrigante, a volte impressionante, ma la curiosità che potrebbe però derivarne, scaturita a breve termine dall'importante premio ricevuto (per il cinema italiano il più importante degli ultimi dieci anni, e a venti dall'ultimo Orso d'Oro, ricevuto nel 1991 per l'orrido “La Casa del sorriso” di Marco Ferreri), avrà solitamente soddisfazione soltanto nelle poche e limitatissime sale d'essai.
La sezione di alta sicurezza del carcere di Rebibbia di Roma - temporanea (o meno) ospita importanti mafiosi, assassini, trafficanti di droga, ecc., – e da anni allestisce al suo interno delle rappresentazioni teatrali. I Taviani, collaborando con Fabio Cavalli, direttore responsabile di queste messe in scena, mette in cantiere una versione di "Giulio Cesare" entro le mura del carcere, integrando alcune riflessioni dei detenuti, e riadattando l'opera per poter al meglio adattarsi ad alcuni concetti e riflessioni esistenziali espresse dai detenuti, permettendo inoltre agli uomini di Rebibbia di adattare la traduzione in italiano nei loro propri dialetti.
L'inizio e la fine del film, a colori, mostrano frammenti della produzione dal palcoscenico allestito, alla realtà con il pubblico, mentre la maggior parte, girata in un suggestivo bianco e nero, si muove tutta dentro il carcere comprendendo scene delle prove e delle reazioni dei detenuti. Anche se i Taviani vorrebbero sottolineare il pathos della carcerazione, la loro decisione di utilizzare locali carcerari diversi dalle celle diminuisce il senso di uno spazio restrittivo, mentre in una delle scene finali con Bruto (Salvatore Striano) e Cassio (Cosimo Rega), essi sono sparati contro un cielo bianco, accompagnati dai suoni della natura. In una scena successiva, laddove i detenuti fanno ritorno alle loro celle, essa è studiata per apportare alla realtà una fotografia precisa e acuminata dei luoghi, ma l'immagine prima, di loro circondati da un firmamento senza limiti trasforma involontariamente le celle in un costrutto anch'esso teatrale.
Così come facciamo la conoscenza di Striano, che era stato rilasciato nel 2006, tornando a Rebibbia appositamente per questa produzione (ha fatto il suo debutto come attore nel 2008 in "Gomorra" di Matteo Garrone). Ma anche se come attore egli è potente, il suo inserimento tra i detenuti che stanno realmente scontando le loro condanne, scuote dal presunto obiettivo dei Taviani, per forzare la realtà del film a contemplare questioni di libertà interiore ed esteriore, e l'umanità che rimane ineluttabile, anche se trattenuta da muri reali o metaforici.
In questo la rappresentazione del film è -solo parzialmente- riuscita. Nonostante la contemplazione faciliti la riflessione su di queste vite imprigionate, gli spettatori non possono ignorare il fatto che questi tipi non sono esattamente dei Jean Valjean, e sono in regime di massima sicurezza per un motivo. Si tratta di una nozione che fa sì di comprendere maggiormente come la possibilità di queste attività tetrali possa offrire per l'anima incarcerata un rifugio sicuro, pur tra varie contraddizioni, e il suo ruolo nella riabilitazione, che si sente comunque come molto reale e concreto. Ma qual'è lo spettatore che non colleghi certe cose, dopo aver visto i criminali condannati in scena su di una commedia che tratta dell'omicidio commesso da un traditore? Data la divulgazione dello stereotipo mafioso, c'è una strana sensazione che scaturisce dalle linee di dialogo del dramma shakesperiano, la quale fa sì che battute e parole contenenti "l'onore", generino reazioni indesiderate più pendenti verso la commedia involontaria, che il dramma.
Ci sono momenti, quando gli uomini detenuti reagiscono ai concetti espressi e contenuti nella tragedia messa in atto, e insiti nell'opera come nelle loro vite, che si sente un pò troppo il copione, i ragazzi e gli uomini di Rebibbia probabilmente avranno anche ripetuto le loro battute in presa diretta e una volta sola, ma a volte la loro evidente ripetizione per la cinepresa, è stridente per la mancanza di spontaneità, e in contrasto con quelli che dovrebbero essere stati gli intenti del film. Senza dubbio il film stesso funziona meglio in tutte quelle sue parti in cui deve essere maggiormente aderente all'opera di Shakespeare. Per la maggior parte, le modifiche apportate alla stessa tragedia Shakespeare (anche a causa della traduzione italiana) mantengono comunque la concezione del Bardo dei caratteri e dei personaggi, ma l'uso dei dialetti può essere realmente sorprendente per delle orecchie abituate all'acutezza aspra e brusca dei dialoghi di questa famosissima tragedia. Quando Decio (Juan Dario Bonetti) dice, "fresco, fresco, questa mattina", suona più come un venditore ambulante di uova ai mercati generali di Roma, che le declamazioni di un generale romano. Mentre invece alcuni interventi sembrano essere passati attraverso una certa “distrazione” del doppiaggio, in post-produzione.
E' innegabile che praticamente tutti gli uomini di Rebibbia rendano giustizia ai loro ruoli, ma la reale sorpresa è il Cesare impersonato da Giovanni Arcuri. Il suo fisico possente, il contegno espressivo che ben padroneggia, la palpabile presenza e la facilità con cui declama le sue battute, dovrebbero far valutare ai Fratelli Taviani quanto egli abbia fatto guadagnare all'intero film, e come esso sarebbe stato senza la sua partecipazione, oltre a pensare di poterlo lanciare ancora in ruoli futuri.
Le riprese di Simone Zampagni, l'assistente dell'operatore dei Taviani nei loro lavori più recenti, impagina il tutto crudamente e in bel bianco e nero, semplice e memorabile, anche se alcuni potrebbero trovare che le immagini portino in sè un loro contenuto "arty", il quale mostri le sue credenziali di un po' troppo consapevolmente. Mentre la musica è generalmente ridotta al minimo, c'è una ripetizione di un triste tema in alto sassofono che ben trasmette la sfortuna dei protagonisti, e la canzone "Roma, città senza vergogna" fa guadagnare ancora qualcosa al film.
Napoleone Wilson
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