Dai resoconti di Jung dei viaggi in Africa: “…Non si udiva suono alcuno, tranne il malinconico grido di un uccello da preda. Era la quiete dell’eterno principio, il mondo come era stato da sempre, nello stato del non-essere: perché fino allora nessuno era stato lì per riconoscere che era «quel mondo». Mi allontanai dai miei amici, fino a non vederli mai più, e assaporai la sensazione di essere completamente solo. Eccomi quindi, primo essere umano a riconoscere che quello era il mondo, e questo, grazie a quel riconoscimento, allora soltanto era veramente creato. Fu lì che mi divenne straordinariamente chiaro il significato cosmico della coscienza. Soltanto io, l’uomo, con un invisibile atto di creazione, ho dato al mondo il compimento, l’esistenza obiettiva. Abitualmente attribuiamo quest’atto solo al Creatore, senza considerare che così vediamo la vita come una macchina calcolata fin nei più piccoli dettagli che, assieme alla psiche umana, procede senza senso, ubbidendo a regole previste e preordinate. In tale squallida fantasia d’orologiaio non c’è posto per un dramma tra uomo, mondo e Dio; non c’è alcun «nuovo giorno» che porti a «nuovi lidi», ma solo la monotonia di processi calcolati. Mi venne in mente il mio vecchio amico pueblo. Riteneva che la «raison d’ étre» (ragion d’essere) dei suoi pueblos fosse il compito di aiutare il loro padre, il sole, ad attraversare ogni giorno il cielo. Li avevo individati per la pienezza del senso del loro credo.” (Jung – Ricordi,Sogni,Riflessioni p.306)





