Perché l'amore per i libri mi commuove.
Andrea ieri mi ha mandato la sua recensione a L'arte di vivere in difesa di Chad Harbach (Rizzoli, 2012). Sapevo che lo stava leggendo, tra risa e lacrime. Andrea è un amico, un appassionato, uno che ci vede dentro. Ho scritto questa recensione perché voglio contagiare il mondo, voglio che tutti leggano Chad Harbach. Quando gli ho proposto di pubblicarla, lui mi ha chiesto di farlo a mio nome; non gli interessava certo figurare, comparire, presenziare. Ho pensato fosse giusto riservargli il mio spazio qui sul blog (con nome e cognome) perché sono certa che la bellezza ci salverà e questa ne è una prova.
Buona lettura.
Chad Harbach, L'arte di vivere in difesa
di Andrea Geloni
L'arte di vivere in difesa, il titolo italiano, non rende nemmeno la metà dei possibili significati di The art of fielding, il titolo originale del romanzo di esordio di Chad Harbach uscito per Rizzoli. E va be', era difficile, forse impossibile. La traduzione, titolo a parte, è però perfetta.
Fielding significa, tra le altre cose, prendere e rilanciare, e significa per estensione qualcosa di simile a rispondere a tono. È il mestiere dell'interbase, ed è un po' il mestiere di chi prova a diventare adulto.
Qui sta il succo di tutta la storia.
La sinossi racconta che il protagonista del romanzo è Henry, un ragazzino tanto bravo col guantone in mano quanto scarso a parlare, andare alle feste, fare le cose normali dei ragazzi del college. Si tratta della storia del suo talento e della difficoltà di crescerci intorno. Non è del tutto vero. Perché se c'è un romanzo corale, questo lo è a tutti gli effetti. E ognuno dei protagonisti del romanzo fa i conti col proprio talento e con la difficoltà di far fronte alle Grandi Speranze per il futuro. Essenzialmente, le proprie.
E se proprio dev'esserci un protagonista, forse non è tanto l'adorabile Henry, anche se la storia gira indubbiamente attorno a lui, quanto Guert Affenlight, il rettore del campus. Guert è un catcher in the rye, ed è anche un Gustav von Aschenbach più fortunato, più bello. È uno che sta esattamente nel posto giusto e, con goffa delicatezza, riesce ad acchiapparli uno per uno, i suoi ragazzi – inclusa la figlia – senza sbagliare mai una parola e senza mai avere piena coscienza di quanto sia destinato a contare nel modo in cui i ragazzi alimentano, giorno per giorno, con passione e fatica, la propria anima.
Di questo si tratta, di prendersi cura del proprio talento, e di farsi carico anche di quello degli altri. Questo avviene sul campo da baseball e avviene anche fuori, in un campus americano periferico tanto bello quanto per nulla incantato. La realtà, il futuro, il mondo “fuori” è il convitato di pietra di tutti i ragazzi. Sta prima e dopo, lo sanno tutti perfettamente. Non è un college per piccoli borghesi annoiati, non si tratta di uno sport per signorine.
Pacificarsi con la sindrome di Prufrock (Posso osare, e posso osare?) come la chiama, buttandola là, il rettore Affenlight. Con precisione chirurgica. Ci sono pagine, in questo libro, che valgono vent'anni di psicanalisi. E tuttavia nulla è risolto e tutto è preciso. Anche il caos, e la difficoltà di cavarne le gambe da persone intere.
Si ride, si piange. Ci si appassiona violentemente a ragazzi che hanno ben poco di comune e a uno sport, il baseball, che con noi ha davvero poco a che fare. Ma non è questo l'essenziale. Chad Harbach costringe a fare i conti con i propri sogni, con il tempo che passa, con quello che significa crescere. Anche a sessant'anni.
Raramente -anche se questo non è il tema del libro- si è parlato (e non parlato) con così tanta grazia di omosessualità. L'approccio di Owen -“sono il tuo compagno di stanza gay e mulatto”- è disarmante, quasi eccessivo. E tuttavia questa dichiarazione scorre come “un dato” non problematico, fattuale, non risolutivo. Normalmente complicato. Fa parte dell'arte di vivere, in difesa e in attacco. Imparare da chi fa diversamente. Lavorare per la squadra, anche quando questo significa tirarsi indietro, o sbandare, o riprendersi. O andare a riprendere qualcuno.
Quello che conta alla fine è quanto siamo stati precisi. Sul campo e fuori. Con quanta passione ci abbiamo provato, almeno, “a furia di sforzi e di errori, di studio e d'amore”.