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All’incirca è sempre lo stesso Medem. Il titolo Chaotic Ana (2007) si fa manifesto del suo cinema dove il termine “caos” non va inteso in un’accezione negativa, bensì come assenza di linearità, soprattutto temporale, in una costante contingenza di cose luoghi e persone.
Non sono certo le idee che mancano al regista spagnolo (anche se alla lunga lo stile medemiano si sta un po’ svalutando), piuttosto la proposizione tracimante di esse che rende le sue opere indebitamente complessificate.
Il segno distintivo, o meglio, uno dei tanti che connotano la poetica dell’autore, è quello di accrescere esponenzialmente le personalità dei suoi attori, anzi di moltiplicare i personaggi stessi in modo da trasformarli in esseri che cambiano e che al contempo restano immutati; Ana è esacerbazione di questo procedimento poiché la ragazza attraverso le sue ipnosi – il film intero è un conto alla rovescia compreso tra un prologo e da un epilogo – rivive la vita, e soprattutto la morte, di donne esistite in epoche passate. È un salto all’indietro che supera di gran lunga quello di Vacas (1992), e arriva ad una sorta di originarietà, di arché: Ana non è più Ana, non è nemmeno la prima scalatrice femmina morta congelata, né una madre uccisa dai marocchini e menchemeno un’indiana punita da uno stregone, no, nell’idea di Medem c’è quella di rappresentare la Donna attraverso una trasversalità geografica (Ana che si sposta dall’Europa all’America), temporale (Ana che si muove da un’epoca all’altra) e personale (Ana che cresce, che cambia, negli abiti, nella pettinatura), con l’obiettivo di giungere ad una Eva arcaica, colei che contiene il principio della vita.
Capirete che l’azzardo è consistente e appesantito inoltre dalla classica atmosfera irreale di Medem che costella il film di situazioni fiabesche (la caverna del “padre mostro”, il viaggio in barca verso New York) bilanciate da slanci di realtà anche cruda (il condor che strappa gli occhi della donna) sempre presenti nella filmografia del regista (l’incidente ne Gli amanti del Circolo Polare, 1998). L’aspetto violento è intensificato perché questo viaggio a ritroso nell’universo muliebre si concretizza nel dolore, nella sopraffazione e nel sopruso che ha leso la femminilità nel corso della Storia. L’incursione nel sociale non riesce granché, al pari dell’incipit con l’uccello che defeca in testa al falco bendato ripreso forzatamente negli ultimi moraleggianti minuti con l’uomo di potere, figura assolutamente superflua e slegata dal contesto, che si becca un po’ di merda in faccia. La metafora scivola nella parodia, probabilmente consapevole, ed è questo che proprio non va giù.
È sempre lo stesso Medem, nel bene o nel male.
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