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Charles Baudelaire, Diari intimi 3

Creato il 04 ottobre 2012 da Marvigar4

diari intimi

XV

Credo che il fascino infinito e misterioso che risiede nella contemplazione d’un naviglio, e soprattutto d’un naviglio in movimento, attiene, nel primo caso, alla regolarità e alla simmetria che sono uno dei bisogni primordiali dello spirito umano, allo stesso grado della complicazione e dell’armonia, – e, nel secondo caso, alla moltiplicazione successiva e alla generazione di tutte le curve e figure immaginarie operate nello spazio dagli elementi reali dell’oggetto.

L’idea poetica che emana da questa operazione del movimento nelle linee è l’ipotesi d’un  essere vasto, immenso, complicato, ma euritmico, d’un animale ricolmo di genio, sofferente e sospirante tutti i sospiri e tutte le ambizioni umane.

Popoli civilizzati, che parlano sempre scioccamente di selvaggi e di barbari, ben presto, come dice d’Aurevilly [1], voi non varrete nemmen più abbastanza per essere idolatrati.

Lo stoicismo, religione che non ha che un sacramento, – il suicidio!

Concepire un canovaccio per una buffoneria lirica o fiabesca, per una pantomima, e tradurlo in un romanzo serio. Affogare tutto in un’atmosfera anormale e sognante, – nell’atmosfera dei grandi giorni. – Che sia qualcosa di ninnante, – e pure di sereno nella passione. – Regioni della Poesia pura.

Commosso al contatto di quelle voluttà che somigliano a dei ricordi, intenerito dal pensiero d’un passato trascorso male, di tante colpe, di tante controversie, di tante cose da nascondersi reciprocamente, si mise a piangere; e le sue lacrime calde gocciolarono nelle tenebre sulla spalla nuda della sua cara e sempre attraente amante. Lei trasalì; si sentì, anch’essa, intenerita e irrequieta. Le tenebre rassicuravano la sua vanità e il suo dandismo di donna fredda. Questi due esseri decaduti, ma ancora sofferenti del loro avanzo di nobiltà, s’abbracciarono spontaneamente, confondendo nella pioggia delle loro lacrime e dei loro baci le tristezze del proprio passato, con le loro speranze assai incerte dell’avvenire. È presumibile che mai per essi la voluttà fu così dolce come in quella notte di malinconia e di carità; voluttà saturata di dolore e di rimorsi.

Attraverso la nerezza della notte, lui aveva guardato dietro a sé negli anni profondi, poi s’era gettato nelle braccia della sua amica colpevole per ritrovarvi il perdono ch’ella gli accordava.

- Hugo pensa spesso a Prometeo. S’applica un avvoltoio immaginario su di un petto che è lancinato solo dai cauteri della vanità. Poi l’allucinazione che si complica, che varia, ma seguendo la marcia progressiva descritta dai medici, egli crede che per un fiat della Provvidenza, Sant’Elena abbia preso il posto di Jersey. 

Quest’uomo è così poco elegiaco, così poco etereo, che farebbe orrore perfino a un notaio.

Hugo-Sacerdozio ha sempre la fronte piegata; – troppo piegata per vedere qualcosa, eccetto il suo ombelico.

Cos’è che oggi non è un sacerdozio? La gioventù è anch’essa un sacerdozio, – a quel che dice la gioventù.

E cos’è che non è una preghiera? – Cacare è una preghiera, a quel che dicono i democratici quando cacano.

M. de Pontmartin, – un uomo che ha sempre l’aria d’arrivare dalla sua provincia…

L’uomo, ossia ognuno, è così naturalmente depravato che soffre meno dell’abbassamento universale che della stabilizzazione di una gerarchia ragionevole.

Il mondo sta finendo. La sola ragione per la quale potrebbe durare, è che esiste. Questa ragione è debole, in paragone a tutte quelle che annunciano il contrario, particolarmente a questa: che ha da fare ormai il mondo sotto il cielo? -  Poiché, supponendo che continuasse a esistere materialmente, sarebbe un’esistenza degna di questo  appellativo e del dizionario storico? Non dico che il mondo sarà ridotto agli espedienti e al disordine buffonesco delle repubbliche del Sud America, – che probabilmente anche noi torneremo allo stato selvaggio, e che andremo, attraverso le rovine erbose della nostra civilizzazione, a cercare il nostro pascolo, con un fucile alla mano. No; – perché questa sorte e queste avventure implicherebbero ancora una certa energia vitale, eco delle primitive età. Nuovo esempio e nuove vittime delle inesorabili leggi morali, noi periremo per ciò che noi abbiamo creduto di vivere. La meccanica ci avrà talmente americanizzato, il progresso avrà così bene atrofizzato in noi tutta la parte spirituale, che nulla tra le fantasticherie sanguinarie, sacrileghe, o antinaturali degli utopisti potrà essere comparato ai suoi risultati positivi. Domando a ogni uomo che pensa di mostrarmi ciò che sussiste della vita. Della religione, credo inutile parlarne e di cercarne i gesti, poiché darsi ancora la pena di negare Dio è il solo scandalo in materie simili. La proprietà era scomparsa virtualmente con la soppressione del diritto di primogenitura; ma verrà il tempo in cui l’umanità, come un orco vendicatore, arrafferà il loro ultimo boccone a quelli che credono di aver ereditato legittimamente dalle rivoluzioni. Tuttavia, non sarebbe lì il male supremo.

L’umana immaginazione può concepire, senza darsi troppa pena, delle repubbliche o altri stati comunitari, degni di qualche gloria, se sono diretti da uomini consacrati, da certi aristocratici. Ma non è particolarmente grazie alle istituzioni politiche che si manifesterà la rovina universale, o il progresso universale; dato che il nome poco m’importa. Sarà grazie all’avvilimento dei cuori. Ho bisogno di dire che il poco che resterà della politica si dimenerà miseramente  tra le strette dell’animalità generale, e che i governanti saranno costretti, per mantenersi e per creare un fantasma dell’ordine, di ricorrere a dei mezzi che farebbero accapponare la pelle alla nostra attuale umanità, sebbene così indurita? – Allora, il figlio fuggirà la famiglia, non a diciott’anni, ma a dodici, emancipato dalla sua golosa precocità; la fuggirà, non per cercare delle avventure eroiche, non per liberare una bellezza prigioniera in una torre, non per immortalare una soffitta con dei sublimi pensieri, ma per aprire un commercio, per arricchirsi, e per far concorrenza al suo infame papà, – fondatore e azionario d’un giornale diffonderà i lumi e che farà considerare Le Siècle di allora come un agente della superstizione. – Allora, le randagie, le declassate, quelle che hanno avuto qualche amante, e che chiamiamo a volte angeli, in ragione e grazie alla sventataggine che brilla, luce dell’azzardo, nella loro esistenza logica come il male, – allora, quelle, dico, non saranno altro che spietata saggezza, saggezza che condannerà tutto, tranne il denaro, tutto, pure gli errori dei sensi! – Allora, ciò che somiglierà alla virtù, – che dico, – tutto ciò che non sarà l’ardore per Pluto sarà reputato un immenso ridicolo. La giustizia, se in quell’epoca fortunata può ancora esistere una giustizia, farà interdire i cittadini che non sapranno far fortuna. – La tua sposa, o Borghese! La tua casta metà la cui legittimità fa per te la poesia, introducendo ormai nella legalità un’infamia  irreprensibile, guardiana vigilante e amorosa della tua cassaforte, non sarà più che l’ideale perfetto della femmina mantenuta. Tua figlia, con una nubilità infantile sognerà nella sua culla di vendersi per un milione. E tu stesso, o Borghese, – ancora meno poeta di quanto tu lo sia oggi, – tu non vi troverai niente da ridire; tu non avrai alcun rimpianto. Perché vi sono cose nell’uomo che si fortificano e prosperano nella misura in cui le altre si rendono delicate e si sminuiscono, e, grazie al progresso di quei tempi, delle tue budella non ti resterà che le viscere! – Questi tempi sono forse assai prossimi; chi sa che non siano già venuti, e se l’ispessimento della nostra natura non è il solo ostacolo che ci impedisce d’apprezzare l’ambiente in cui respiriamo!

Quanto a me, che sento talvolta in me il ridicolo d’un profeta, io so che non vi troverò mai la carità di un medico. Perduto in questo mondo villano, urtato col gomito dalla folla, sono come un uomo stanco il cui occhio non vede dietro, negli anni profondi, altro che disinganno e amarezza, e davanti a sé altro che una tempesta in cui niente di nuovo v’è contenuto, né insegnamento, né dolore. La sera in cui quest’uomo ha rubato al destino qualche ora di piacere, cullato nella sua digestione, dimentico – per quanto possibile – del passato, contento del presente e rassegnato all’avvenire, inebriato del suo sangue freddo e del suo dandismo, fiero di non essere così basso come quelli che passano, egli si dice contemplando il fumo del suo sigaro: che m’importa dove vanno queste coscienze?

Io credo che ho deviato in ciò che la gente del mestiere chiama un capolavoro. Tuttavia, lascerò queste pagine, – poiché voglio datare la mia tristezza.

[IGIENE]

[I]

Più si vuole, meglio si vuole. Più si lavora, meglio si lavora e più si vuole lavorare.Più si produce, più si diventa fecondi.

Dopo una deboscia, ci si sente sempre più soli, più abbandonati.

In morale come in fisica, io ho sempre avuto la sensazione dell’abisso, non soltanto dell’abisso del sonno, ma dell’abisso dell’azione, del sogno, del ricordo, del desiderio, del rimpianto, del rimorso, del bello, del numero, etc.

Ho coltivato la mia isteria con gioia e terrore. Adesso, ho sempre le vertigini, e oggi, 23 gennaio 1862, ho subito un singolare avviso, ho sentito passare su di me il vento dell’ala dell’imbecillità.

A Honfleur! il più presto possibile, prima di cascare più in basso. Quanti presentimenti e segnali inviati già da Dio, che è gran tempo d’agire, di considerare il minuto presente come il più importante dei minuti, e del mio tormento ordinario fare la mia perpetua voluttà, cioè il Lavoro!

[II]

Ad ogni minuto noi siamo gravati dall’idea e dalla sensazione del tempo. E non vi sono che due mezzi per scappare a questo incubo, per dimenticarlo: il piacere e il lavoro. Il Piacere ci usa. Il Lavoro ci fortifica. Scegliamo. Più ci serviamo di uno di questi mezzi, più l’altro ci ispira la ripugnanza. Non si può obliare il tempo che servendosene. Tutto non si fa che poco a poco.

De Maistre e Edgar Poe m’hanno insegnato a ragionare. Non c’è opera lunga se non quella che non si osa cominciare. Diviene incubo.

Rinviando ciò che si ha da fare, si corre il pericolo di non poterlo mai fare. Non convertendosi subito, si rischia d’essere dannato. Per guarire di tutto, della miseria, della malattia e della malinconia, non manca assolutamente che il Gusto del Lavoro.

[III]

Fai, tutti i giorni, ciò che vogliono il dovere e la prudenza.  Se tu lavorassi tutti i giorni, la vita ti sarebbe più sopportabile. Lavora sei giorni senza tregua.

Per trovare dei soggetti, γνῶθι σεαυτόν (Lista dei miei gusti). Sii sempre poeta, anche in prosa. Grande stile (niente di più bello che il luogo comune).  Comincia anzitutto, e poi serviti della logica e dell’analisi. Qualunque ipotesi vuole la sua conclusione. Trovare la frenesia giornaliera.

[IV]

Due parti. Debiti (Ancelle).Amici (mia madre, amici, me).Così, mille franchi devono essere divisi in due parti di cinquecento franchi ciascuna, e la seconda divisa in tre parti. 

A Honfleur. – Fare una revisione e una classificazione di tutte le mie lettere (due giorni). E di tutti i miei debiti (due giorni). (Quattro categorie, biglietti, grossi debiti, piccoli debiti, amici). Classificazione delle incisioni (due giorni). Classificazione delle note (due giorni).

[V]

Troppo tardi forse! – Mia madre e Jeanne. – La mia salute tramite la carità, tramite il dovere! – Malattie di Jeanne. Infermità, solitudine di mia madre.- Fare il proprio dovere tutti i giorni e confidare in Dio, per l’indomani.- La sola maniera di guadagnare del denari è di lavorare in modo disinteressato.- Una saggezza accorciata. Toilette, preghiera, lavoro.- Preghiera: carità, saggezza e forza.- Senza la carità, io sono solo un cembalo rimbombante.- Le mie umiliazioni sono state grazie di Dio.- La mia fase d’egoismo è finita?  – La facoltà di rispondere alla necessità di ogni minuto, l’esattezza, in una parola, deve trovare infallibilmente la sua ricompensa.«La disgrazia che si perpetua produce sull’anima l’effetto della vecchiaia sul corpo: non ci si può più muovere; ci si corica…D’altro canto, dall’estrema gioventù si ricavano ragioni di rimando; quando si ha troppo tempo da spendere, ci si persuade che si può attendere anni a giocare davanti agli avvenimenti. 

CHÂTEAUBRIAND. [2]

[VI]

Jeanne trecento, mia madre duecento, io trecento, – ottocento franchi al mese. Lavorare dalle sei del mattino, a digiuno, fino a mezzodì. Lavorare alla cieca, senza scopo, come un pazzo. Vedremo il risultato. Io suppongo di vincolare il mio destino a un lavoro ininterrotto di più ore. Tutto è riparabile. È ancora tempo. Chissà se persino nuovi piaceri… ? Gloria, pagamento dei miei debiti. – Ricchezza di Jeanne e di mia madre. Io non ho ancora conosciuto il piacere di un progetto realizzato. Potenza dell’idea fissa, potenza della speranza. L’abitudine di compiere il dovere scaccia la paura. Si deve voler sognare e saper sognare. Evocazione dell’ispirazione. Arte magica. Mettersi subito à scrivere. Io ragiono troppo. Lavoro immediato, anche cattivo, val meglio della fantasticheria. Un seguito di piccole volontà fa un grosso risultato. Ogni  regresso della volontà è una particella di sostanza perduta. Quanto è dunque prodiga l’esitazione! E che si giudichi dell’immensità dello sforzo finale necessario per riparare tante perdite! L’uomo che recita la sua preghiera, la sera, è un capitano che mette le sentinelle. Può dormire. Sogni sulla Morte e avvisi. Io non ho finora goduto dei miei ricordi che da solo; bisogna goderne in due. Fare dei godimenti del cuore una passione. Perché io comprendo una esistenza gloriosa, io mi credo capace di realizzarla. O Jean-Jacques! Il lavoro genera forzatamente i buoni costumi, sobrietà e castità, consequenzialmente la santità, la ricchezza, il genio successivo e progressivo, e la carità. Age quod agis. Pesce, bagni freddi, docce, lichene, pastiglie, occasionalmente; altrimenti, soppressione di ogni eccitante. Lichene d’Islanda. 125 grammi. Zucchero bianco………. 250 – Far bagnare il lichene, per dodici o quindici ore, in una quantità d’acqua fredda sufficiente, poi gettare l’acqua. Fare bollire il lichene in due litri d’acqua su un fuoco dolce e sostenuto, finché questi due litri non si riducano a un solo litro, schiumare una sola volta; aggiungere allora i duecentocinquanta grammi di zucchero e lasciare addensarsi fino alla consistenza di uno sciroppo. Lasciar raffreddare. Prendere al giorno tre grandi cucchiai, al mattino, a mezzodì e alla sera. Non temere di forzare le dosi, se le crisi fossero troppo frequenti.


[1] Jules-Amédée Barbey d’Aurevilly (1808-1889), scrittore autore di opere quali Du Dandysme et de George Brummell (George Brummell e il Dandismo, 1845), Une vieille maîtresse (1851), L’Ensorcelée (La stregata o La donna affascinata, 1854), Chevalier Destouches (Il cavaliere Des Touches, 1864), Les Diaboliques (Le diaboliche, 1874).

[2] François-René de Châteaubriand (1768-1848), scrittore, di cui Baudelaire cita un brano da Mémoires d’outre-tombe, opera pubblicata postuma nel 1850. 



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