Charlie Hebdo: l’indignazione ci seppellirà!
#SiamotuttiCharlie, o #nonsiamoCharlie, comunque la pensiamo il dato di fatto è che siamo tutti dei modaioli, e tutti ci prestiamo all’onda travolgente degli hashtag come se fosse davvero l’unico modo per mostrare autentico sdegno per l’omicidio dell’editor e dei fumettisti del settimanale satirico francese Charlie Hebdo.
Oggi siamo tutti strenui paladini della libertà di stampa e di parola a casa d’altri, “non sarà l’Islam a tapparci la bocca, tempereremo tutte le matite necessarie.” Ma dov’era questa indignazione quando Berlusconi ha soppresso Satyricon e Raiot, così come i programmi di Santoro e Biagi, con l’accusa di uso criminoso della televisione pubblica?
Nessuno, non c’era nessuno allora.
Va bene la memoria selettiva, ormai sembra una componente ineliminabile del dna degli italiani, ma sarebbe corretto tenere a mente che nel 2014 l’Italia si è trovata al 49esimo posto nella graduatoria stilata dal World Press Freedom Index, dietro paesi verso i quali nutriamo un insensato senso di superiorità come Estonia, Giamaica, Costa Rica, Namibia, Capo Verde, Ghana, ed è stata classificata dalla Freedom House come nazione “parzialmente libera”. Un’indignazione priva di ragione e fondamento, figlia della stessa moda degli hashtag.
Così come è priva di senso la richiesta e la pretesa che i mussulmani di tutto il mondo si scusino e dissocino da quanto accaduto. I latini dicevano, excusatio non petita, acusatio manifesta. È come dire che ogni ateo debba manifestare dissenso per ogni squilibrato che compie una strage. E ogni cristiano debba fare il mea culpa per le crociate. E ogni prete si danni l’anima per provare di non essere un pedofilo. Siamo tutti Charlie, Siamo tutti Ahmed Merabet, il poliziotto mussulmano morto nell’attentato, Siamo tutti Serena Shim, giornalista di 30 anni impegnata a raccontare il conflitto siriano, morta in un incidente d’auto definito sospetto dalla stampa iraniana. Ma la triste realtà è che tra tre giorni ognuno tornerà ad essere se stesso, e di tutta questa rabbia e indignazione, delle analisi dei perché e dei per come non rimarrà niente.
Tante le domande con cui i media ci hanno bombardato in questi due giorni: chi ha rivendicato l’attentato? L’Isis o al-Quaeda? È un attacco alla libertà di stampa o alla cultura occidentale? Chi erano i terroristi? Perché odiavano l’occidente, così liberale e tollerante? Mancano, però, alcune domande fondamentali. La prima e più importante è “who profit”, cui bono? La seconda: chi ha cominciato questa stramba “guerra di civiltà”? Chi la fomenta, chi la finanzia? Di nuovo, a chi giova?
E ancora, è davvero plausibile che dei terroristi addestrati, finanziati e organizzati, che pianificano un attacco nel cuore di Parigi possano dimenticarsi la carta d’identità all’interno della macchina usata per recarsi sul luogo dell’attentato? Quando i due attentatori si sono nascosti nella copisteria, hanno dichiarato di essere pronti al martirio. Logica affermazione per due terroristi di matrice islamica, sempre pronti a farsi saltare in aria a sfregio del valore della vita tanto caro a noi europei. Allora perché non l’hanno fatto? Perché hanno aspettato di essere uccisi dal blitz, prevedibilissimo, della polizia? Impreparati? Disorganizzati? Come se un’attacco di questo tipo possa decidersi in un pomeriggio di noia.
Infine, perché l’attacco ad un negozio kosher? Per la libertà dei fratelli palestinesi vittime di Israele, certo, allora perché non sono stati uccisi tutti gli ostaggi come punizione esemplare? Perché non è stata proposta nessuna trattativa? Oltretutto, se l’obiettivo era quello di supportare la causa palestinese pare quantomeno controproducente un’azione del genere, proprio ora che la Palestina sta accedendo alla Corte Penale Internazionale. Controproducente per la Palestina ma non per Netanyahu, che riceve così su un piatto d’argento l’occasione per ammonire il mondo sulla minaccia islamica, che Israele fronteggia da solo da decenni e che l’Europa sembrava ultimamente minimizzare.
In risposta a Netanyahu e a chiunque abbia speso parole di disprezzo nei confronti dell’Islam e del mondo mussulmano, arrivano le condanne dal mondo arabo, compresi i leader di Hamas e il leader di Hezbollah, acerrimi nemici di Israele e quindi, plausibilmente, dell’Occidente interno.
“Attraverso i loro atti immondi, violenti e inumani, questi gruppi hanno danneggiato il profeta e i mussulmani più di quanto abbiano fatto i loro nemici (…), più di quanto abbiano fatto i libri, i film e le caricature. Sono i peggiori atti che hanno fatto danno al Profeta nella storia”, accusa indignato Hassan Nasrallah.
Tutti questi interrogativi, al momento senza risposta, ricordano vagamente quelli sorti all’indomani dell’11 settembre, quando lo sgomento accecante ha lasciato il posto alla ragione. Come hanno fatto le torri a implodere in quel modo? Che fine hanno fatto i resti dell’aereo del pentagono? Come è possibile che due aerei di linea finiscano fuori rotta senza che nessuno se ne accorga in tempo nel cielo più controllato del mondo? Alcune di queste domande hanno oggi una risposta, e probabilmente il paragone tra l’attacco a Charlie Hebdo e l’11 settembre americano è più calzante di quanto si pensi.
L’estremismo si nutre dell’estremismo altrui, e la propaganda del “nemico comune” è da sempre il più efficace collante sociale. Non si tratta di condannare ma di capire, di analizzare i fatti all’interno del contesto francese, nessuno è stato sfiorato dall’idea che possa trattarsi di un attacco contro la Francia e le sue politiche interne ed estere, così come nel più complicato panorama internazionale. Perché a nessuno interessa capire cosa renda quegli esseri umani, di religione mussulmana, dei terroristi? Non è uccidendoli e condannandoli con tutte le nostre forze che si sconfigge il terrorismo, sopratutto se non capiamo le ragioni che li rendono tali.
E se l’11 settembre ha portato all’attacco contro l’Afganistan e l’Iraq, a cosa porterà la strage di Charlie Hebdo?
Scriveva Tiziano Terzani in una lettera indirizzata a Oriana Fallaci post 11 settembre: “Purtroppo, oggi, sul palcoscenico del mondo, noi occidentali siamo insieme i soli protagonisti e i soli spettatori, e così, attraverso le nostre televisioni e i nostri giornali, non ascoltiamo che le nostre ragioni, non proviamo che il nostro dolore.”
Era il 2001 ma questa frase è vera oggi più che mai.