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CHARLIE - Romanzo - Prologo

Da Jitsumu
Attenzione! Per i contenuti ed il linguaggio usato la lettura di questo post è riservata ad un pubblico adulto.
PROLOGO
Guardava spesso dalla finestra con la fronte appoggiata al vetro. Di solito però non stava lì per più di un minuto. Era un tipo nervoso, sebbene gli altri pensassero di lui l’esatto contrario. Alitando disegnava aloni rotondi sul vetro che gli coprivano la faccia. Avrebbe voluto smettere di fumare. Ma intanto fumava e sbatteva quelle nuvole grigie sulla parete di cristallo dove la sua testa era posata stanca. Sul tavolo c’era un posacenere zeppo di cicche puzzolenti, otto o nove bicchieri di plastica sporchi di caffè e qualche libro. Non che leggesse, ma gli piaceva molto darsi un’aria da intellettuale, siccome era stato comunque un leader, a suo modo. Come un pazzo, all’improvviso scese di casa. Magari erano finite le sigarette, ma non so dirvi con precisione perché scappò via così. Per le scale, tutte uguali e tutte vuote, lo assalì il desiderio di rintanarsi di nuovo dentro per non uscire più.
Perché? Quattro mura possono racchiudere un sogno, ma i sogni sfumano con l’età, diventano sempre più pochi e più ridicoli, cresci e diventi qualcuno lontano da quello che volevi essere, e forse non te ne ricordi più. Era questo che pensava Charlie, perciò si sentiva una persona banale. Aveva passato finora la sua vita provando ad essere un artista, un creativo. Pensava di essere uno stronzo. A volte gli faceva schifo il suo tavolo pieno di cicche e bicchieri, ed era convinto che tutti gli altri stessero andando nella direzione giusta mentre lui, dimenticato o accondisceso con un sorrisetto di simpatia (o pietà), continuava in questo suo gioco inutile. Charlie diceva sempre che c’era un problema di fondo nel suo modo di concepire l’arte che lo allontanava dalla realizzazione sociale. Diceva solo questo, non illustrava mai esaurientemente questi pensieri facendoci capire in che modo tale concezione  lo allontanasse dal mondo, sì che noi pensavamo (convinti) che fosse solo un ignorantello che non riusciva neanche a trasferire in parola ciò che pensava, a capire ciò che pensava. Chi lo frequentava, ed erano proprio pochi, a volte afferrava quello che la sua testa cercava di trasmettere e ne rimaneva stranito, perché per tutti noi era difficile accettare di avere di fronte un poeta. Abbiamo assaggiato i migliori giorni della nostra esistenza con lui. In fondo ricordo che eravamo dei mediocri nel nostro piccolo, almeno quanto il nostro compagno lo era nel suo fluttuare felice attorno alla Conoscenza, ed è per questo che con lui siamo stati soltanto capaci di assaggiarla la vita, senza mai entrarci dentro di petto, affrontando paura e solitudine, lavoro e delusioni, e senza mai sapere cosa si prova ad essere soddisfatti. Dico che Charlie era un mediocre perché non accompagnava mai la sua voglia di riuscire con la volontà vera e propria, e ha trascinato anche noi in questa stanchezza nel realizzare le cose. Ma faceva parte della sua poetica e lui si riteneva scusato. Un giorno mi fece leggere una sua poesia; dopo che la ebbi letta gli chiesi un chiarimento su un punto, ma in realtà volevo solo parlare con lui della sua arte e sviscerarla perché quella poesia non mi aveva lasciato indifferente. Mi rispose “Stefano, io la poesia l’ho scritta, non l’ho mica capita”. Mi resi conto che la sua vera poesia l’aveva scritta in quel momento rispondendomi, e pensai che in fondo qualcosa da dire l’aveva.
Fuori, appena si trovò per strada, cominciò a piovere. Quelle gocce cadevano apposta per ricordargli che stava cercando solo distrazione, che stava cercando altre cose vive fuori dai suoi pensieri. Charlie odiava la pioggia per questo. Non guardava le strade camminando ma le sue scarpe, sforzandosi di trovare un passo che le facesse bagnare il meno possibile, e raso al marciapiede saltellava preoccupato di arrivare il prima possibile a destinazione. Si fermò con le scarpe inzuppate in una piazza enorme poco distante da casa sua, sotto un portone dove in verità dalla pioggia non ci si riparava granché bene. Il suo viso era rappreso in una smorfia tra l’avvilito e lo schifato, mentre dondolava con le mani nelle tasche dei jeans e si appoggiava sfinito. Restò lì ad aspettare un quarto d’ora, poi si accorse da lontano che veniva verso di lui una ragazza alta e magrissima, con i capelli rossi e una faccia cattiva. Fece finta di non vederla, aspettando che lei gli si avvicinasse. Senza salutarsi proseguirono sotto l’ombrello della rossa. Sembrava dovessero fare una rapina. Lei aveva un ombrello, e questo è un fatto felice perché intanto la pioggia era diventata forte, fetida e insopportabile. Dopo dieci minuti di passi si fermarono in un bar. Charlie aveva la fissazione dei bar del cazzo, dei caffè macchiati, del dover parlare di vita vissuta, come se poi lui avesse girato il mondo o fatto chissà cosa. E proprio perché della sua vita non ne faceva niente finiva col compatirsi e ti toglieva il sangue dalle vene. Venne un periodo in cui giravamo con la macchina fino alle quattro, sognando la fama e la gloria per il nostro gruppo, facendoci da soli i complimenti su come erano geniali i pezzi e su quanto eravamo artisti. La pratica squallida non durò più di un paio di mesi, dopo io li allontanai perché non ne potevo più di quelle facce, e cominciai a vedere le cose come un vecchio. C’era tanta ipocrisia tra di noi, e spesso mi assale il dubbio che sia stato io col mio modo di comportarmi a costringere tutti noi, col tempo, a trattarci da estranei. Siamo stati spesso vicini. Anni fa una sera piansi molto, perché avevo bevuto e raccontai a Charlie tutto il mio cervello, tutto me. Anche lui pianse, perché anche lui era ubriaco. Uno non si rende conto che le cose cambiano nella vita finché non cambiano davvero, nel modo in cui non puoi farci più niente. Quando si è giovani molte cose si trasformano in pochissimo tempo, ma non si ha mai paura di aver perso qualcosa. Tutto cambia quando ci si accorge di aver perso tempo, nient’altro che tempo. Oggi odio molto quell’età di merda in cui fai quello che ti pare mentre un plotone di bocche ti dice con aria compassionevole quello che ti succederà. Adesso che il grosso mi è già stato caricato sulle spalle dovrei passare io dall’altra parte. Sarebbe orrendo, ma tanto farò anche questo. Non lo vedo da tempo, e oggi mi piacerebbe dimostrargli qualcosa; fargli vedere dove sono arrivato e farmi invidiare. Ma purtroppo non sono arrivato da nessuna parte e ogni giorno sogno e mi vergogno.
Sono tornato a casa ieri sera e la prima cosa che ho pensato è stata “almeno è tardi e fino a domani non incontro nessuno”. E’ stato facile e bello riuscire a scamparseli per un paio di giorni, ma poi non si sa perché esce fuori la serata di merda senza pretese; tu accetti e sei fuori combattimento. I saluti dopo un po’ di tempo che non ci si vede sono sempre complicati, soprattutto se non hai voglia di salutare. Seduti in macchina, parli dal finestrino, scendi (sei un maleducato), sigaretta (la prima) e pensi a quando eri via e stavi bene, battuta dello stronzo che non puoi sopportare (e ridi), comprano una pizza e tu dai un morso (attento a non sporcarti), arriva la troia che qui un mese fa ti stavi per fottere ma non ci sei riuscito (e per questo che è una troia), sigaretta (la seconda), parli ancora, abbracci, bacio a destra e a sinistra, ridi, in macchina, si parte, sei davanti perché sei simpatico al proprietario dell’auto, autoradio con musica pastello (puttana!), dove andiamo? Traffico e sigaretta (3), ti vengono a dire che uno dei tuoi partirà, in Germania, per sempre. Tristezza e sigaretta (4), al sedile di dietro tre amici diversi fra loro (é la prima cosa che mi viene in mente), si parla di telefonini, la golf 2000 GTI, Monica, Alessandra (sottovoce due dei tre), vacanze, esami, marmitte, play station, Tony ha il cazzo moscio e la ragazza lo ha lasciato, CBR 600, volante momo. Io intanto zitto, guardo la strada e arrivo a 6 sigarette ( dalla mattina ne avevo fumate solo 2). Ma cos’hai? Ti vedo giù. Vaffanculo. Si arriva fuori al locale e i muscoli delle gambe si preparano a stare almeno un’ora fermi davanti all’ingresso. Arriva quello che conosciamo: for lady due, riduzioni quanti siete le ragazze ci sono ferma quelle che stanno da sole vado io quanto dobbiamo aspettare battuta ho dimenticato il cellulare in macchina (non io, non ce l’ho il cellulare) sigaretta si entra forse  incrociato sguardo di molte mignotte cominciano fantasie erotiche inconfessabili noi quattro insieme non ci siamo più tristezza e sigaretta (9) ti ritrovi dentro che neanche te ne sei accorto e sigaretta (10) giro della discoteca per almeno un quarto d’ora angelo azzurro (il prossimo lo paghi) balli poco ti siedi parli e sigaretta ( le stai odiando ma al prossimo angelo azzurro le sentirai più leggere) ti alzi e si va a ballare ma sei giù che ci vuole la consumazione presa ma non sale ancora niente spingi per uscire dall’angolo del bar e gomitate addosso camicie sudate che ti fa uno schifo assurdo arrivi al presidio di ballo dei tuoi e sgoli il bicchiere salti ridi e balli in un modo del cazzo che ti viene da vomitare al pensiero di quello che non sei più perché l’angelo è in cielo adesso ma non abbastanza e dopo un’ora consumazione schiaffata in fronte dall’amico del cuore (mai visto prima a momenti) e bevi gin vodka cointreau balli ancora ma  sta per finire (te ne accorgi e non ridi più tanto) giri solo e dopo poco trovi presidio poltroncine ti siedi battute e risata (ma nessuno capisce un cazzo le musica è alta) rapprimi il pacchetto di sigarette tra le mani e ne chiedi una ad un cazzone secco e attillato (le ho finite) ad una ragazzina che ti sembra per bene (non fumo) ad uno che ti hanno presentato una mezz’ora prima (no!) ti arrendi e non fumi cazzo! Si comincia a vociferare che si va via, ed io sono contento. Le macchine girano per un altra ora e mezzo per hamburger crostate al cioccolato caffè (lo prendo io e riesco a scroccare una multifilter) frullato banana e fragola deve tornare qualche ragazza, chiedo scusa e domando anch’io che mi si accompagni. E’ finita.
Non sono più con loro. Adesso fanno i grandi che soffrono, ma non sanno un cazzo di me e di quello che sto passando. Sono qui e sono solo. Ogni tanto una telefonata, una lettera che sembra si sia  più uniti, ora. Un paio d’anni fa ci sarebbe sembrato banale farlo. Forse siamo amici. Il 4 agosto abbiamo girato in macchina tutti e quattro e Stefano piangeva. Ci eravamo appena detti che sarebbe stato inutile continuare.
Abbiamo smesso di suonare quel giorno.  
CHARLIE - Romanzo - Prologo
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