Sempre più frammenti della nostra vita sono online: quello che scegliamo di condividere sui social network, i profili sui servizi che usiamo, siti e articoli che citano il nostro nome e altri dati, magari legati al nostro passato. Chi stabilisce il limite di cosa può circolare sul nostro conto? I primi dovremmo essere noi, ma non sempre è sufficiente controllare ciò che condividiamo. Intorno al “diritto all’oblio” si è sviluppato in questi anni un grande dibattito. Ma che cos’è, esattamente, il diritto all’oblio? Vediamo cosa dice Wikipedia:
Con la locuzione “diritto all’oblio” si intende, in diritto, una particolare forma di garanzia che prevede la non diffondibilità, senza particolari motivi, di precedenti pregiudizievoli dell’onore di una persona, per tali intendendosi principalmente i precedenti giudiziari di una persona.
In base a questo principio, ad esempio, non è legittimo diffondere dati circa condanne ricevute o comunque altri dati sensibili di analogo argomento, salvo che si tratti di casi particolari ricollegabili a fatti di cronaca ed anche in tali casi la pubblicità del fatto deve essere proporzionata all’importanza dell’evento ed al tempo trascorso dall’accaduto.
La Corte di giustizia europea ha riconosciuto il diritto all’oblio (13 maggio 2014): Google ha così ricevuto circa 90.000 richieste di rimozioni di contenuti dai risultati del motore di ricerca. L’azienda di Mountain View ne ha approvate circa la metà. Nelle risposte agli utenti, come sottolinea l’avvocato Fulvio Sarzana, manca “un criterio giuridico specifico” e questo potrebbe cambiare parecchio lo scenario (e le possibilità nelle mani degli utenti).
È giusto che le notizie vengano cancellate? E sulla base di quali criteri? Mentre la giurisprudenza cerca di tracciare una strada (che rischia di essere diversa da uno Stato all’altro), il dibattito resta aperto.
Il fondatore di Wikipedia, Jimmy Wales, ha dichiarato: “La storia è un diritto umano. Io sto sotto i riflettori da un bel po’ di tempo, alcune persone dicono di me cose belle e altre cose brutte. Ma questa è storia e non userei mai un procedimento legale come questo per cercare di nascondere la verità. Credo che ciò sia profondamente immorale”. Il chief legal officer di Google, all’indomani della sentenza della Corte di giustiza europea aveva detto: “Non siamo d’accordo con la sentenza, è un po’ come dire che un libro può stare in una biblioteca, ma non può essere incluso nel suo catalogo”.