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Noi laicisti siamo gente seria, mica ci mettiamo a mungere farfalle per quel crocifisso tatuato sul braccio di Ivan Bogdanovic. E nemmeno ci verrebbe mai in mente di imbastire una polemica sui Pater e gli Ave che Michele Misseri ha recitato per Sarah Scazzi dopo averla strangolata, eppure ci sarebbe da discutere: le preghiere sono state recitate prima o dopo aver scopato col cadavere? Ma – dicevo – siamo gente seria e solitamente glissiamo sul dettaglio da buon cristiano che impreziosisce questa o quella merda d’uomo. Il mafioso è devotissimo? Ci pare brutto approfittarne per malevoli generalizzazioni: trattiamo il credente e il criminale separatamente, al massimo ci scappa qualche innocente cenno alle analogie culturali tra le due Cupole. Siamo così, noi laicisti: non ci piace approfittare, evitiamo la reductio ad hitlerum, ci sembra poco carino far di tutta l’erba un fascio. Poi, naturalmente, può scappare l’eccezione, ma sempre quando provocati. E cos’è più provocatorio di una excusatio non petita?Scrive il poeta Davide Rondoni, editorialista di Avvenire: “Ecco la preghiera delle nostre nonne e dei nostri figli divenire materia, elemento di cronaca nera. Divenire anche questo. Eppure, se così si può dire, proprio quelle parole, quell’inizio di preghiera, pronunciata certo da una mente ottenebrata e persa [lo zio della Scazzi], finiva per l’essere in mezzo ai titoli tutti gridanti e anche astutamente montati, una specie di pallida luce, di bava di lume come d’alba nella fittissima nebbia di quel delitto. L’aver pronunciato quelle parole - per chissà quale sperduto riflesso della mente o forse barlume di coscienza per quanto poi di nuovo sepolto e vanificato - è stato forse un confuso, ma non per questo meno necessario, primo gesto di preghiera su quel luogo e su quel corpo che poi ha meritato e chiamato la folla, lo sciame e il sacrosanto rituale di preghiere dei dolenti e dei giusti. Ma è come se da subito, come per una urgenza di fronte alla orrida realtà dell’evento, e di fronte al povero corpo di Sara derubato di vita e violato di tutto ma non della dignità, ecco, è come se da subito fosse dovuta scendere, medicamento e supplica, la preghiera semplice, la richiesta di abbraccio alla Madre dolce «ora e nell’ora della nostra morte». E non potendo esser pronunciata dai sassi, dal cielo muto, dalla terra arsa o dai rami neri di quel luogo, quella necessaria preghiera si è fatta largo proprio nel punto più nero e riarso, in lui, l’assassino medesimo, orante e non per questo meno assassino...”.Bello, eh? Non si riesce a capire dove finisca l’editorialista e dove cominci il poeta, tanto sono amalgamati bene. E mica è tutto, perché il pezzo continua: “«Ave Maria, prega per noi peccatori, ora e nell’ora della nostra morte…». E poi sono tornate, dunque, rilanciate sui giornali; se pur agitate per fini di nuova morbosità o solo per dare altro macabro tocco, di fatto quelle parole povere e sacre sono tornate. Quelle uniche parole dicibili veramente tra tutte le parole rovesciate dai media. È come se quelle parole di supplica per lei e per tutti (sì anche per lui, più belanti, deboli ma più vere di ogni sinistra richiesta di condanna a morte) si fossero fatte avventurosamente largo, non solo sulle labbra di preti celebranti e di fedeli, ma tutto intorno, per l’aria italiana, sui tavolini del bar, tra le pagine aperte, nelle autoradio. Nate nel punto più oscuro della vicenda sono diventate poi in un certo senso la corale, la ventosa orazione mille volte rilanciata. Le parole semplici della fede...”.Voilà, anche «orcoddio!» mi diventa una preghiera. Che editorialista, che poeta!
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