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“Che mora la morte” di Giampaolo Correale

Creato il 07 febbraio 2012 da Sulromanzo

“Che mora la morte” di Giampaolo Correale“Carrasco controllò dalla finestra che la sua macchina, abbastanza grande e vecchia da scoraggiare furti ma pur sempre di qualche valore, per di più con una borsa da viaggio in vista sul sedile posteriore, non fosse oggetto di troppe attenzioni da parte di sfaccendati trasteverini. Era risalito in casa a recuperare i sigari dimenticati (o lasciati, si era chiesto, come ultimo appello a non abbandonare le sue abitudini anche soltanto per breve tempo) sul tavolino davanti al divano, di fronte allo scaffale che, con i libri, conteneva il lettore di CD, il computer, il vecchio troneggiante giradischi, e la sua collezione di incisioni rare, musiche ed esecutori quasi introvabili, che egli stesso ascoltava ormai poco”.

Che cosa direste voi di questo incipit? Io ne sono rimasto deluso. Deluso perché, musicalmente parlando, mi ha quasi indispettito. “Valore” e “posteriore”, “dimenticati” e “lasciati”, “scoraggiare” e “recuperare” e “abbandonare”, cacofonie palesi, e nella seconda parte il periodo avanza macchinoso, quasi avverso al ritmo di lettura. Ma un incipit, anche se gli elementi di debolezza non mi hanno permesso di procedere subito con piacere, non può rappresentare la condizione per abbandonare un testo. E infatti l’eccezione ha trovato motivo di vita subito dopo.

Che mora la morte di Giampaolo Correale è un romanzo che non inizia nel migliore dei modi, che non ti è amico, che non ti imbriglia in luoghi e suggestioni propulsivi per la lettura, ti opprime nella sua placida e non confidenziale normalità, quasi anonima. Per motivi forse chiari all’autore, l’ostilità iniziale che ho percepito sulla pelle ha trovato poi un significato lontano dalla prevedibilità delle prime pagine; l’ostilità si insinua nel complesso gioco dell’io che tenta, disperatamente, di riportare al passato con lucidità la retina, in una serie di diapositive raccolte con disparità di giudizio valoriale, un giudizio che solo metabolizzando gli eventi incontra le emozioni del protagonista, forse oppresso dalla conservazione di una traccia vera, che vinca sulla fine, sull’oblio o sul naufragare fra accadimenti, nonostante l’espediente delle lapidi sia di un’originalità imbarazzante per lo scrittore più navigato. E la vittoria interiore, come tema di dipanatura narrativa, gonfia il climax pagina dopo pagina, senza peraltro apparire operazione troppo premeditata, sebbene non si attribuisca a Correale una scelta ingenua, nondimeno una capacità di furbizia demagogica. Certo è che la non celata educazione sentimentale di Carrasco si immerge in un fiume di rimembranze colpevoli e “annegò nel mare inesorabile della cattiva letteratura”.

D’improvviso, in verità intuendo l’intento, Che mora la morte esaspera le forme note di esercizi di stile, perché la scrittura non è solo strumento ma significato del romanzo, un significato inebriante per il protagonista, che sfida la morte, esorcizzandola con visioni lapidarie:

Qui giacciono Alberto e Cecilia:

Lui voleva cenare alle dieci, lei alle otto.

Per anni sedettero a tavola alle nove.

Una coppia felice

La felicità stride con le ipocrisie dei personaggi, funzione contraria del predicato di vita di Carrasco, così turpemente desiderato, persuaso che le esperienze non fossero lamina fra l’io e il mondo ma collante di comprensione, fibrata muscolatura d’interpretazione dell’alterità, e di conseguenza dell’identità propria.

Correale torna dopo anni da Senza colpo ferire, romanzo d’esordio pubblicato con Einaudi, con un’opera ancora di formazione, non definita nei canoni narrativi, ciononostante un’irrefrenabile conquista di sperimentazione partecipata, un’attiva volontà di trasferire in un romanzo l’occhio dello sceneggiatore esperto e scafato.

Se, a conclusione, dovessimo pensare a una trasposizione cinematografica di Che mora la morte, forse non vi sarebbe scelta più naturale.

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