Sta per avviarsi il nuovo campionato di calcio italiano, edizione numero centotredici. Come ogni anno, il grande Barnum del pallone metterà in scena un avvincente spettacolo popolare che coniuga divertimento e pathos, sacralità e miseria. Milioni di tifosi attendono con ansia crescente il fischio d’inizio, mal celando nuove speranze e vecchi timori. La lotta per vincere o non retrocedere nei vari campionati è la metafora della nostra fatica per affermarci o non soccombere agli insulti della vita. Ci identifichiamo nella squadra che amiamo al punto di esaltarci per le sue vittorie o somatizzare i suoi risultati negativi. Non è forse questa la magia del calcio, eterno conflitto fra il successo e la sconfitta esistenziale? E non è forse questa la ragione vera della dipendenza? Non possiamo fare a meno di subire un transfert che si cementa negli anni grazie ai ricordi, alle emozioni, al senso di appartenenza. Faccio parte di questo consorzio umano affetto dalla sindrome pedatoria e non posso rinunciare al calcio, per quanto il calcio odierno non sia più quello di una volta. Bella scoperta! – si potrebbe obiettare, nulla è più come una volta. Vero, ma ho come l’impressione che il calcio – nella fattispecie il mondo del calcio più che il gioco – si sia snaturato al punto di perdere una parte del suo fascino. L’interesse che provo verso la nuova stagione è alta ma pari al disgusto che inavvertitamente avverto verso il grande baraccone globalizzato e la sua fenomenologia. A tenermi avvinghiato al football è la fede calcistica, una realtà così complessa e articolata che varrebbe la pena dedicarle un saggio sociologico. Nel mio caso, poi, la fede è duplice. Faccio il tifo per due squadre: il Como e l’Inter. Fortunatamente, è raro che i destini di queste due società calcistiche s’incrocino e quando è successo ho dovuto fare una scelta. Confesso che ho sempre optato per la squadra della mia città. Ma non è delle mie preferenze che voglio scrivere, bensì del fatto che a poche ore dall’inizio di una nuova stagione che non lesinerà sfide, entusiasmo e delusioni, avverto una profonda, insana nostalgia per il calcio di una volta. A farmi provare questa mozione d’affetti contribuisce il particolare di avere compiuto, come ogni anno, un rito scaramantico, cioè sfogliare alcuni volumi della mia collezione di almanacchi del calcio editi dalla Panini. Il più vecchio risale al campionato 1969-70. In realtà, ho cominciato a seguire il calcio e andare allo stadio qualche anno prima. Ho ricordi ancestrali indelebili. Il mio pianto dopo la sconfitta della Nazionale Italiana ai mondiali del 1966 contro la Corea del Nord. Un Como-Cremonese 7 - 1 del 1 gennaio 1967 che mi fece innamorare per sempre dei lariani. Il primo derby a San Siro, sempre nel 1967, che intuii più che vedere perché l’emozione di andare a Milano e tifare per la Grande Inter del mago Herrera mi fece dimenticare a casa gli occhiali da miope. La vittoriosa trasferta del Como a Piacenza nel 1968, e la conseguente promozione in serie B. E poi… be’ ho scolpito nel cuore la mitica semifinale del mondiale messicano del 1970 in cui battemmo la Germania 4-3 nei supplementari. Si giocava di notte, per via del fuso orario e un fulmine folgorò l’antenna del televisore. Seguii la partita nel mio letto, con la testa sotto il cuscino e la radiolina incollata all’orecchio. Quando l’incontro finì ero madido di sudore, come se fossi sceso in campo, ma felice come un viaggiatore giunto nell’Empireo. Non c’è più il calcio di una volta. E non so se la mia affermazione è dettata dal fatto che a cambiare siamo noi o se, effettivamente, è cambiato il mondo del calcio. Quel che è certo è che nel 2006, quando abbiamo piegato la Francia nella finale del Campionato del Mondo, ho esultato ma senza raggiungere l’orgasmo, come accadde nel 1982. Non credo che a fare la differenza fosse il valore dell’impresa, e quindi delle due compagini azzurre (quella di Bearzot era fantastica, quella di Lippi discreta), quanto il corollario, l’atmosfera, la passione. Credo che fosse più facile appassionarsi patologicamente quando il calcio era ancora un gioco e non un business, quando negli stadi prendevi posto dove volevi e non c’erano le tessere del tifoso, quando si giocava solo di domenica e alla sera i bar esponevano il pannello verde con i risultati delle partite in schedina, quando il tifo era sano, quando Tutto il calcio minuto per minuto, il Novantesimo minuto e la Domenica Sportivaerano le uniche ribalte e ci bastavano, quando non esistevano i procuratori e i calciatori rispettavano i contratti, quando gli stadi erano pieni, quando non c’erano limiti a bandiere e striscioni, quando ogni squadra aveva almeno un alfiere che nasceva e moriva vestendo sempre gli stessi colori e non esistevano le maglie fosforescenti o degne di Arlecchino. Non parlo dei tempi di Piola e Meazza. Parlo del calcio e dei grandi campioni che ho avuto modo di veder giocare a partire dalla metà degli anni Sessanta, quando il calcio era in bianco e nero (non mi riferisco alla Juventus, che mi è indigesta). Ricordo una dichiarazione del mitico Bearzot: “A causa dell’ingresso di grandi sponsor sulla scena del calcio, sembra che il denaro abbia spostato i pali delle porte”. Il vecchio con la pipa aveva ragione. Il resto l’hanno fatto le televisioni, le agenzie di scommesse e i nuovi ricchi (a cominciare dai presidenti russi e arabi). Intendiamoci, nonostante tutto il calcio resta ancora oggi il più grande spettacolo del mondo. In attesa, però, di un big bang al contrario. Prima o poi il pallone potrebbe sgonfiarsi e diventare una realtà virtuale. Lo è già, in fondo. Chiunque può disputare un campionato alternativo a quelli reali con i vari fantacalcio e i videogiochi. Ai miei tempi, la fantasia veniva soddisfatta dalle figurine. Altri tempi, per l’appunto. Ne ho conservate parecchie, non solo quelle edite dalla Panini. Quando ero un bambino, alla vigilia del Campionato, il Corriere dei piccoli pubblicava le figurine profilate delle squadre di serie A. Tu le incollavi su un cartoncino, le ritagliavi lungo le linee tratteggiate e poi, dopo avere piegato la base per farle stare in piedi, schieravi la tua formazione contro un’altra sul tavolo della cucina. Quella di Pelè l’ho incorniciata. Il Subbuteo è arrivato in Italia solo negli anni Settanta.Questo è quanto. Ciò non toglie che fra poche ore si parte e come ogni anno la nostalgia si defilerà e soffrirò per le mie squadre del cuore. Non mi perderò nemmeno una partita dell’Inter e tanto più del Como. Confido in una stagione positiva e poco importa se i nerazzurri non vinceranno lo scudetto e i biancoblu non ce la faranno a tornare in serie B. Sono un ottimista e ne ho viste talmente tante da confidare che un giorno tornerò al Sinigaglia e ne uscirò senza voce per avere sostenuto il mio amatissimo Como 1907 contro la mia amata Inter in una sfida di serie A. Il calcio, e solo il calcio, ti permette di avere una moglie e un’amante e di non provare nessun senso di colpa. Il cuore, e solo il cuore, rivela a chi hai promesso amore eterno.
Sta per avviarsi il nuovo campionato di calcio italiano, edizione numero centotredici. Come ogni anno, il grande Barnum del pallone metterà in scena un avvincente spettacolo popolare che coniuga divertimento e pathos, sacralità e miseria. Milioni di tifosi attendono con ansia crescente il fischio d’inizio, mal celando nuove speranze e vecchi timori. La lotta per vincere o non retrocedere nei vari campionati è la metafora della nostra fatica per affermarci o non soccombere agli insulti della vita. Ci identifichiamo nella squadra che amiamo al punto di esaltarci per le sue vittorie o somatizzare i suoi risultati negativi. Non è forse questa la magia del calcio, eterno conflitto fra il successo e la sconfitta esistenziale? E non è forse questa la ragione vera della dipendenza? Non possiamo fare a meno di subire un transfert che si cementa negli anni grazie ai ricordi, alle emozioni, al senso di appartenenza. Faccio parte di questo consorzio umano affetto dalla sindrome pedatoria e non posso rinunciare al calcio, per quanto il calcio odierno non sia più quello di una volta. Bella scoperta! – si potrebbe obiettare, nulla è più come una volta. Vero, ma ho come l’impressione che il calcio – nella fattispecie il mondo del calcio più che il gioco – si sia snaturato al punto di perdere una parte del suo fascino. L’interesse che provo verso la nuova stagione è alta ma pari al disgusto che inavvertitamente avverto verso il grande baraccone globalizzato e la sua fenomenologia. A tenermi avvinghiato al football è la fede calcistica, una realtà così complessa e articolata che varrebbe la pena dedicarle un saggio sociologico. Nel mio caso, poi, la fede è duplice. Faccio il tifo per due squadre: il Como e l’Inter. Fortunatamente, è raro che i destini di queste due società calcistiche s’incrocino e quando è successo ho dovuto fare una scelta. Confesso che ho sempre optato per la squadra della mia città. Ma non è delle mie preferenze che voglio scrivere, bensì del fatto che a poche ore dall’inizio di una nuova stagione che non lesinerà sfide, entusiasmo e delusioni, avverto una profonda, insana nostalgia per il calcio di una volta. A farmi provare questa mozione d’affetti contribuisce il particolare di avere compiuto, come ogni anno, un rito scaramantico, cioè sfogliare alcuni volumi della mia collezione di almanacchi del calcio editi dalla Panini. Il più vecchio risale al campionato 1969-70. In realtà, ho cominciato a seguire il calcio e andare allo stadio qualche anno prima. Ho ricordi ancestrali indelebili. Il mio pianto dopo la sconfitta della Nazionale Italiana ai mondiali del 1966 contro la Corea del Nord. Un Como-Cremonese 7 - 1 del 1 gennaio 1967 che mi fece innamorare per sempre dei lariani. Il primo derby a San Siro, sempre nel 1967, che intuii più che vedere perché l’emozione di andare a Milano e tifare per la Grande Inter del mago Herrera mi fece dimenticare a casa gli occhiali da miope. La vittoriosa trasferta del Como a Piacenza nel 1968, e la conseguente promozione in serie B. E poi… be’ ho scolpito nel cuore la mitica semifinale del mondiale messicano del 1970 in cui battemmo la Germania 4-3 nei supplementari. Si giocava di notte, per via del fuso orario e un fulmine folgorò l’antenna del televisore. Seguii la partita nel mio letto, con la testa sotto il cuscino e la radiolina incollata all’orecchio. Quando l’incontro finì ero madido di sudore, come se fossi sceso in campo, ma felice come un viaggiatore giunto nell’Empireo. Non c’è più il calcio di una volta. E non so se la mia affermazione è dettata dal fatto che a cambiare siamo noi o se, effettivamente, è cambiato il mondo del calcio. Quel che è certo è che nel 2006, quando abbiamo piegato la Francia nella finale del Campionato del Mondo, ho esultato ma senza raggiungere l’orgasmo, come accadde nel 1982. Non credo che a fare la differenza fosse il valore dell’impresa, e quindi delle due compagini azzurre (quella di Bearzot era fantastica, quella di Lippi discreta), quanto il corollario, l’atmosfera, la passione. Credo che fosse più facile appassionarsi patologicamente quando il calcio era ancora un gioco e non un business, quando negli stadi prendevi posto dove volevi e non c’erano le tessere del tifoso, quando si giocava solo di domenica e alla sera i bar esponevano il pannello verde con i risultati delle partite in schedina, quando il tifo era sano, quando Tutto il calcio minuto per minuto, il Novantesimo minuto e la Domenica Sportivaerano le uniche ribalte e ci bastavano, quando non esistevano i procuratori e i calciatori rispettavano i contratti, quando gli stadi erano pieni, quando non c’erano limiti a bandiere e striscioni, quando ogni squadra aveva almeno un alfiere che nasceva e moriva vestendo sempre gli stessi colori e non esistevano le maglie fosforescenti o degne di Arlecchino. Non parlo dei tempi di Piola e Meazza. Parlo del calcio e dei grandi campioni che ho avuto modo di veder giocare a partire dalla metà degli anni Sessanta, quando il calcio era in bianco e nero (non mi riferisco alla Juventus, che mi è indigesta). Ricordo una dichiarazione del mitico Bearzot: “A causa dell’ingresso di grandi sponsor sulla scena del calcio, sembra che il denaro abbia spostato i pali delle porte”. Il vecchio con la pipa aveva ragione. Il resto l’hanno fatto le televisioni, le agenzie di scommesse e i nuovi ricchi (a cominciare dai presidenti russi e arabi). Intendiamoci, nonostante tutto il calcio resta ancora oggi il più grande spettacolo del mondo. In attesa, però, di un big bang al contrario. Prima o poi il pallone potrebbe sgonfiarsi e diventare una realtà virtuale. Lo è già, in fondo. Chiunque può disputare un campionato alternativo a quelli reali con i vari fantacalcio e i videogiochi. Ai miei tempi, la fantasia veniva soddisfatta dalle figurine. Altri tempi, per l’appunto. Ne ho conservate parecchie, non solo quelle edite dalla Panini. Quando ero un bambino, alla vigilia del Campionato, il Corriere dei piccoli pubblicava le figurine profilate delle squadre di serie A. Tu le incollavi su un cartoncino, le ritagliavi lungo le linee tratteggiate e poi, dopo avere piegato la base per farle stare in piedi, schieravi la tua formazione contro un’altra sul tavolo della cucina. Quella di Pelè l’ho incorniciata. Il Subbuteo è arrivato in Italia solo negli anni Settanta.Questo è quanto. Ciò non toglie che fra poche ore si parte e come ogni anno la nostalgia si defilerà e soffrirò per le mie squadre del cuore. Non mi perderò nemmeno una partita dell’Inter e tanto più del Como. Confido in una stagione positiva e poco importa se i nerazzurri non vinceranno lo scudetto e i biancoblu non ce la faranno a tornare in serie B. Sono un ottimista e ne ho viste talmente tante da confidare che un giorno tornerò al Sinigaglia e ne uscirò senza voce per avere sostenuto il mio amatissimo Como 1907 contro la mia amata Inter in una sfida di serie A. Il calcio, e solo il calcio, ti permette di avere una moglie e un’amante e di non provare nessun senso di colpa. Il cuore, e solo il cuore, rivela a chi hai promesso amore eterno.
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