Ogni giorno, nel mio lavoro di redazione per la scolastica, non vedo che una minima parte di ciò che sarà il prodotto finito. Ed è la logica della grande azienda, quello su cui ci premoniva Charlie Chaplin in Tempi moderni, quella catena di montaggio che tanto abbiamo temuto, specialmente chi proviene da una zona fortemente industrializzata come è (anzi, ahinoi, come era) il nord est italiano.
Non posso certo lamentarmi, va detto. Perché anche se non riesco a realizzare tutto il prodotto, finito, nel mio mestiere c’è comunque una certa consapevolezza di come debba essere a livello globale, oltre al fatto che quel “poco”, quel “piccolo” va comunque pensato e concertato in collaborazione con i grafici editoriali, tenendo conto del pubblico di riferimento, quello che chiamiamo target, sia nell’impaginazione che nel contenuto, anzi proprio questi due aspetti vanno insieme, non possono prescindere l’uno dall’altro. Altrimenti il libro finisce per diventare sfilacciato, incoerente, senza logica e senza sostanza, anche se di sostanza ne avrebbe, se ben concertato.
Però ogni tanto voglio uscire da questo seminato, e concepirlo tutto io un libro dall’inizio alla fine. Voglio conoscere i meccanismi di nascita di un libro, voglio capire qual è la struttura basilare, il suo scheletro, il modo in cui va letteralmente costruito. Magari il mio prodotto non sarà perfetto perché artigianale, magari risulterà incoerente perché non progettato in maniera globale in anticipo sulla manifattura, magari ci sarà un pressapochismo che farebbe inorridire chi si occupa sul serio di grafica, ma a parer mio ci sono espressioni di noi che vanno riportate così come vengono, e anche le inesattezze possono concorrere a fare di un prodotto artigianale qualcosa di unico (lo so, sembro uno di quei foglietti di avvertenze che infilano nei taralli fatti in un forno artigianale, ma è proprio così).
Un primo contatto con questo tipo di laboratori del libro l’avevo avuto seguendone uno per bambini, organizzato da Munaria, che come dice il nome si basava interamente sul Metodo Munari®. Quell’esperienza è stata più incentrata sull’estetica, anche se smontare un libro per poi rimontarlo mi ha dato una consapevolezza su come ciò possa catturare l’attenzione di quindici bambini di età differenti, che sottoposti a vari stimoli (soprattutto tecniche a loro sconosciute o quasi, come usare i timbrini per comporre immagini, o bucare i fogli per far sbirciare la pagina successiva, che poi si trasforma una volta vista per intero), e a una certa libertà producono opere di un’estetica che lascia stupefatto anche chi con le immagini non ci lavora mai. E le storie che si possono dire o immaginare attraverso quelle immagini rimettono in moto in chi le guarda o le costruisce meccanismi creativi che — purtroppo — accantoniamo nell’età adulta.
I libri che ho prodotto ai laboratori Munaria.
L’improvvisazione, che però dà risultati insperati, mi è stata utile qualche giorno fa nel laboratorio di scrittura surrealista Il cadavere eccellente berrà il vino novello, Il bel laboratorio, proposto da Teatro Balocco, creato da due ragazze, Silvia Testa e Maura Esposito, che da anni vivono tra Torino e Milano, è stato un input per queste mie riflessioni. Organizzato nell’ambito di QuadraMKT presso Zooilab, in via Savona, nell’epicentro del design milanese fatto di persone che non vogliono dimenticare i mestieri antichi, come la tipografia, l’illustrazione, l’incisione, la legatoria… E proprio questo è stato fatto: oltre a scrivere un racconto a quattro mani, che risulta comico perché no sense — una persona pesca una frase a caso da un giornale, l’altra usa l’ultima parola per comporre un’altra frase, poi svela l’ultima parola della seconda frase alla prima persona e così via — senza alcuna progettazione di contenuto-immagine abbiamo poi illustrato il risultato della nostra scrittura. Scrittura che, si badi bene, si è fatta con la macchina da scrivere. Anche qui i margini di errori devono essere minimi, e se gli errori ci sono restano. Uno strumento generatore di bellezza.
Il risultato lo propongo qui.