L’incidente di Chernobyl è un fardello che il pianeta si porta ancora dietro anche se sono passati 27 anni, più di un quarto di secolo. Si pone ancora l’attenzione sul disastro non solo per evitarne di nuovi o per capire se effettivamente sia necessario il nucleare per il fabbisogno energetico (anche con tutti i rischi che comporta) ma perché nelle regioni colpite dall’incidente (e non solo) continuano a registrarsi casi di tumore che sono riconducibili alle radiazioni della centrale.
Nel 2007, l’ONU ha avviato un piano d’azione decennale per il “recupero e lo sviluppo sostenibile” delle regioni colpite dall’incidente (Ucraina, Russia e Biellorussia). Le analisi mostrano che la zona con radiazioni troppo alte si restringe continuamente ma questo non è ancora sufficiente per scongiurare gli episodi di tumore.
L’OMS ha infatti stimato 5mila casi di tumore alla tiroide nelle aree considerabili colpite dall’incidente ma non si evidenziano aumenti particolari di altri tipi di tumori. “Questo non vuol dire che il maggior rischio non ci sia” afferma l’agenzia.
Dopo l’incidente, in un rapporto sulla quantità di radiazioni espanse al di fuori dei territori dell’allora URSS, la ex CEE ha escluso la possibilità di livelli preoccupanti stilando una classifica di paesi più a rischio di contaminazione (in cui l’Italia è stata messa per terza dopo Grecia e Germania).
Il rapporto indicava che nel primo anno dopo Chernobyl un neonato in Grecia aveva assorbito 420sievert, in Germania 230 ed in Italia 160 (livelli di dose medie assorbite che non si discosterebbe, secondo il documento, dalle radiazioni di fondo già presenti nei paesi).
Diversi studi europei hanno cercato di osservare una relazione tra il disastro e l’aumento di casi di leucemia, che rispetto ad altri tumori si verifica in tempi minori, concludendo che questi non sono effettivamente aumentati.
Non bastano le rassicurazioni dei rapporti ufficiali, però, a tranquillizzare. Infatti il rischio di accumulo delle radiazioni permane ed ogni tanto emergono i danni della nube radioattiva in Europa. Ad esempio a Marzo in Valsesia in alcuni cinghiali sono state trovate quantità elevate di cesio 137 (che secondo alcuni esperti sono riconducibili a Chernobyl).
Quella di Valsesia non è l’unica segnalazione, anche in Germania, sempre sui cinghiali, nel 2007 e nel 2010, sono state trovate quantità analoghe che gli esperti riconducono al disastro.
Intanto una analisi recente sulla quantità di radiazioni gamma sui vestiti indossati dai pompieri intervenuti dopo l’esplosione ha mostrato che queste sono ancora altissime. I vestiti dei pompieri, tutti morti poco dopo, erano stati abbandonati nell’ospedale 126 a Prypjat, una delle cittadine più vicine alle centrale, perché altamente contaminati.
Tutta la cittadina di Prypjat è ora compresa nella “zona morta”, dunque completamente deserta, ma i cittadini all’epoca furono evacuati solo 2 giorni dopo.
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