Tra un paio di settimane (esattamente il 13 maggio) saranno vent'anni che Chet Baker ha tragicamente lasciato questo mondo. Dovendomi assentare per un certo periodo prima di partire voglio dedicare un ricordo a quello straordinario artista segnato, purtroppo, dalla maledizione della droga.Lo scorso anno gli dedicai già una pagina corredata di musica e video (qui), pertanto adesso mi limiterò a ricordare i suoi esordi e le sue prime disavventure con la droga.
Il mio primo incontro musicale con Chet avvenne, su disco, nella seconda metà degli anni '50 e ne rimasi subito folgorato. Uno dei primi dischi di jazz che acquistai all'epoca era un 45 giri EXP del quartetto di Gerry Mulligan. I 45 EXP (extended play) erano una specie di mini album da 17 cm. con custodia cartonata lucida che spesso riportava in scala ridotta la copertina del relativo LP. All'epoca erano molto diffusi per il costo contenuto rispetto ai 33 giri.
I quattro brani di quel disco, che conservo ancora, erano stati incisi nel 1952.
Il 1952 era stato l'anno di esordio di Chet Baker. Prima aveva militato per alcuni anni nell'esercito, dove si era fatto le ossa suonando in diverse bande militari e venendo anche a contatto col jazz. Questa esperienza, inizialmente positiva, si concluse tristemente con un provedimento di radiazione dall'esercito, per ragioni psichiatriche, dovuto a un lungo periodo di diserzione.
La formula magica di quel successo, che affascinò una generazione di giovani, di cui anch'io facevo parte, era da attribuirsi, come scrisse all'epoca Gian Mario Maletto, al «...perfetto lirismo che accomuna i due fiati del complesso, la loro capacità di tradurre l'effervescenza di idee negli a solo e nelle deliziose trame dei loro duetti, che creano insoliti, inattesi impasti armonici con il timbro rugoso del sax baritono di Mulligan e con la sonorità vitrea della tromba di Baker, entrambi sostenuti da due ritmi».
La vera rivelazione era comunque Chet che nel 1953 venne scelto dai lettori della rivista Down Beat come miglior trombettista dell'anno, superando Miles Davis, Gillespie e altri grandi.Questa popolarità indusse Baker a staccarsi da Mulligan ed a formare un proprio gruppo con il pianista Russ Freeman. Questa prima esperienza come leader gli consentì anche di mettersi alla prova come cantante. L'idea funzionò e contribui ad aumentare la sua popolarità, anche se all'inizio venne criticato, in quanto la cosa, visto che il repertorio canoro era ricercato fra noti brani di musica leggera, veniva considerata come un'eccessiva concessione alla musica commerciale. La sua fama si diffuse rapidamente anche in Europa. Nel 1955 venne scritturato per una nutrita serie di concerti in diversi paesi europei, fra cui l'Italia, e per una serie d'incisioni per la francese Barclay.Il 21 ottobre a Parigi moriva per overdose il pianista del suo gruppo Dick Twardzik, di soli 24 anni, e pare che proprio in quel periodo o poco dopo sia cominciata anche per Chet la dannazione della droga. Da allora inizierà il calvario che lo porterà nell'abisso, con ricoveri in ospedale e ripetuti arresti. Questi tristi periodi sono intervallati da alcune registrazioni importanti come quelle che troviamo nell'album Chet Baker and Crew con Phil Urso al sax tenore e Bobby Timmons al piano,
o in quello dedicato al ritorno con Mulligan intitolato appunto Reunion.
Nel 1959 Chet decise di tornare in Italia dove sperava di uscire dal tunnel della droga, ma purtroppo non sarà così. Questa però è un'altra storia già trattata da me nel citato post.Per completare questo quadro consiglio di vedere anche il post Chet Baker in Italy nel blog di Jazz from Italy.P. S.L'amico JazzfromItaly ha voluto integrare questo post con un interessante commento che merita di essere riportato qui integralmente:Chet Baker è stato un grande del jazz,e la sua musica va ricordata in ogni modo possibile.
Quindi grazie a te GiGi, per questo post e per la cover di questo EP, che non avevo mai visto.
Si racconta, su diverse fonti, che il distacco da Mulligan e l’inizio della carriere solistica di Chet avvenne durante il periodo in cui Gerry Mulligan era in prigione (sei mesi per possesso di stupefacenti.)
E’ in quel periodo che Dick Bock – che già pubblicava il Mulligan Quartet - convinse Chet ad incidere da solo, affiancandolo a Russ Freeman.
Un bel ricordo, del periodo appena successivo, lo sta scrivendo Vincenzo Martorella su JAZZiT, parlando dello splendido cofanetto “Chet Baker in Paris. The Complete 1955-1956 Barclay Session” ed intervistando Adriano Mazzoletti che gli ha organizzato il concerto alla Sala dei Notari di Perugia, nel ’55.
Quello dell’inizi, musicalmente, è il periodo che ha reso Chet Baker una stella nel firmamento del jazz internazionale, l’unico che lo ha fatto accettare come musicista dal popolo americano,
sua stessa patria, ricca di contraddizioni.
Ma questo è anche il periodo che lo ha reso un’icona, nel bene e nel male, al di là del suo contributo artistico, facendo ricadere le sue scelte personali anche sugli esiti musicali.
Faccio due esempi:
Come dici tu, la storica rivista americana DOWNBEAT lo aveva eletto migliore trombettista con 882 voti contro i 661 di Dizzy, i 128 di Miles e i soli 89 di Clifford Brown,
il figlio americano, bianco, che supera i padri, difficili da inquadrare, afroamericani …
Poi le vicende con la droga, di cui si parla sempre troppo, a discapito del valore di Chet nel jazz.
Da quel momento, l’America del jazz si dimentica di lui.
Ne sono riprova le molteplici incisioni effettuate in Europa ed in Italia.
Di alcune di queste, i diritti sono stati ceduti da Paolo Piangiarelli (che lo aveva promesso a Baker) alla moglie Carol ed ai figli di Chet.
Ebbene, nonostante l’enorme valore storico artistico di quei tre dischi, (sono quelle di cui sono a conoscenza, avendone parlato direttamente con il patron della Philology) fino ad oggi nessuna major ha acquistato i nastri originali che non hanno ancora rivisto la luce.
L’ombra della droga, ha sempre oscurato la figura del musicista, come ad esempio la discutibile biografia “La lunga notte del mito” di James Gavin, una delle poche tradotte in Italiano di ben 450 pagine, dove di musica si parla veramente poco, e di vizio, tragedia e disperazione veramente troppo.
E’ importante sapere se Miles Davis era uno stronzo?
Se Bird usava o meno l’eroina?
Se Lennie Tristano era cieco?
Se Eric Dolphy era diabetico?
Se Bix era alcolizzato?
Se Monk aveva subito degli elettroshock?
Se Tom Harrell è schizofrenico?
Qunti anni è stato in carcere Art Pepper?
Perché Frank Rosolino uccise i suoi due figli, prima di togliersi la vita?
Saperlo come nozione va bene, è come conoscere la data di nascita, ma dovrebbe finire lì.
Cosa cambia per il jazz?
L’unico valore, semmai, è sociologico,
nel senso che dovremmo chiederci perché i grandi geni soffrono così tanto per potersi esprimere?
Perché consideriamo il non adattarsi a certi canoni come una sventura, una malattia,
invece che come una iper sensibilità?
Perché chi vuole vivere con l’arte viene sempre considerato un outsider in questa società?