All’inizio del semestre, dovevo scegliere tra un corso di letteratura inglese e uno sul giallo classico. Ci ho pensato e poi ho scelto il giallo. A me l’ignoto spaventa tanto e quindi seguendo l’istinto mi sarei buttata di pancia sui rassicuranti Coleridge e Wordsworth; li conosco, li amo, eppure ho scelto il giallo. Mi sono detta che se voglio lavorare in questo campo, dovrò affrontare l’ignoto costantemente e per una che studia Editoria non conoscere un genere che, pur considerato costantemente di serie B, vende sempre più è un po’ una cosa bruttissima. E quindi, niente, mi sono innamorata di Agatha Christie e dei suoi rassicuranti schemi per poi perdermi nelle atmosfere simenoniane e sentir sulla pelle quella sordida claustrofobia delittuosa che è capace di creare attorno al lettore; per poi approdare all’hard-boiled, un sottogenere così sconosciuto che scommetto in pochi conoscono! Ed ecco perché ho detto sì a questo autore e questo libro. Ho bisogno di uscire dalla zona di conforto che negli ultimi due anni mi sono creata e spero sarete lì a tendermi la mano nell’ansia che la Firenze di Calisto mi trasmette.
Buona giornata, amicetti! <3"><3"><3"><3 Buon inizio d’aprile!
Titolo: A un passo dalla vita
Autore: Thomas Melis
Editore: Lettere animate
Anno: 2014
Pagine: 326
Lo potete trovare qui e qui
È una Firenze fredda, notturna e mai nominata quella che fa da palcoscenico alla storia di Calisto e dei suoi sodali, il Secco e Tamagotchi. La città è segnata dalla crisi globale, dietro l’opulenza pattinata del glorioso centro storico si nasconde la miseria dei quartieri periferici. Calisto è intelligente, ambizioso, arriva dal Meridione con un piano in mente e non ha intenzione di trasformarsi in una statistica sul mondo del precariato. Vuole tutto: tutto quello che la vita può offrire. Vuole lasciarsi alle spalle lo squallore della periferia – gli spacciatori albanesi, la prostituzione, il degrado, i rave illegali –, per conquistare lo scintillio delle bottiglie di champagne che innaffiano i privè del Nabucco e del Platinum, i due locali fashion più in voga della città. Calisto vuole tutto e sa come vincere la partita: diventando un pezzo da novanta del narcotraffico.
Dissimulare era un’arte fondamentale. Il Secco aveva comprato una Golf con i soldi dello smazzo, ma non se ne preoccupava. I suoi familiari si bevevano qualsiasi storia raccontasse. Mio padre no. Non avrebbe mai creduto alle favole. Per questo motivo tenevo un profilo bassissimo. Giravo sui mezzi pubblici, affittando una macchina quando necessario. Per gli abiti griffati dicevo semplicemente che si trattava di merce falsa, tarocchi da strada, oppure sceglievo modelli meno conosciuti.
Era una delle regole che mi ero imposto, perché ero convinto che per fare strada, nel business che avevo scelto, fosse necessario un ferreo rispetto di alcune basilari precauzioni. Tutti rispettavamo il codice, seppur con un diverso grado di rigore. Innanzitutto, non portavo mai, per nessuno motivo, la droga nella casa in cui dormivo: questo era il caposaldo dell’intera faccenda, solo dopo veniva il resto. Non parlavo mai al cellulare dei dettagli di un qualsiasi affare: davo un appuntamento e ne discutevo di persona. Sempre. Non parlavo dentro automobili oppure in stanze silenziose, mi assicuravo che ci fossero rumori abbastanza forti da poter disturbare una microspia: l’House che sparavamo a palla dai nostri impianti stereo era perfetta per ovviare a questo inconveniente. Un’altra regola base era quella di non lasciar scappare nulla del lavoro con una delle sconosciute che periodicamente finivano nel mio letto, in particolar modo durante le chiacchierate after-sex. E, ovviamente, era imprescindibile non fare mai menzione, a nessuno degli “amici” non appartenenti alla famiglia, del segreto che ci permetteva di vivere così alla grande.
Purtroppo, però, quelle regole non potevano proteggermi dall’abuso che io stesso facevo del prodotto, e tutta quella prevenzione diventava inutile quando non si rispettava il primo comandamento del narcotrafficante: Never get high, on your own supply.
Entrai nel cucinino, presi una bottiglia d’acqua dal frigo, poi andai in bagno a pisciare. Finii di vagare per la casa raggiungendo la mia stanza e stendendomi sul letto matrimoniale. Finalmente.
Non avevo sonno e, seppur lievemente, digrignavo i denti. La tachicardia mi faceva rimbombare il battito dentro le orecchie.
Cominciai a girarmi e rigirarmi in cerca della posizione giusta, ma era completamente inutile. L’azione della droga sul sistema nervoso centrale non me lo permetteva.
Accesi la televisione e guardai l’orologio. Erano le 4.16. Decisi di fumare una canna e tirai fuori dal comodino l’occorrente (…)
In televisione andava in onda l’ultima parte de Il sorpasso, di Dino Risi, quella dove lo studentello sfigato muore proprio quando ha finalmente cominciato a vivere. Non mi parve un buon auspicio. Cambiai canale.
Pubblicità, televendite, repliche di telegiornali, telefoni erotici…
In quel momento, il palinsesto televisivo era desolato almeno quanto il mio animo. Il rientro solitario a casa scandiva sempre l’emergere della verità che celavo. Nonostante tutte le maschere da vincente potessi indossare in serate come quella appena trascorsa, quando finalmente arrivavo al mio rifugio, ero costretto a fare i conti con me stesso. Cosa stavo facendo in realtà? A cosa mi avrebbero portato quelle scelte?
E poi c’era lei, Beatrice…
Fumai la canna, continuai a fare zapping per un po’ e riprovai a dormire.
Niente.
Il fumo mi aveva rilassato sensibilmente ma ero ancora ostaggio delle mie paranoie. La mattina seguente avrei dovuto affrontare i corsi all’università, ma non sarei stato lucido, la dissolutezza degli ultimi giorni mi avrebbe offuscato la mente.
E poi ancora lei, Beatrice… Mai avrebbe potuto funzionare tra me e Beatrice. Mi mancava Beatrice… Cazzo se mi mancava. Mi mancava da morire.
Continuai a torturarmi, ancora e ancora. Ricontrollai l’orologio alle 5.48. Non avevo chiuso occhio.L’ultima volta che guardai erano le 7 del mattino.