Oggi vorrei buttarvi lì un’idea per una storia, voi ditemi cosa ne pensate.
Il protagonista di questa storia è perlopiù debole, praticamente una vittima. Deve fare lo sguattero per la sua famiglia adottiva, che lo odia e lo tratta malissimo.
Dopo tutte le speranze infrante e i sogni impossibili, a questo personaggio viene donata una possibilità per mezzo della magia. Il protagonista riuscirà a realizzare tutto quello che ha sempre desiderato nella vita grazie alla magia.
Il personaggio di cui sto parlando, ormai è chiaro a tutti, si chiama Harry Potter.
Dopo averci ripensato un attimo, vi renderete conto anche voi che Cenerentola e Harry Potter in realtà sono la stessa storia; l’unica differenza è che Harry Potter a un certo punto diventa lui stesso la fata Turchina.
L’idea che Cenerentola non sia altro che un vero e proprio archetipo letterario che si ripete ciclicamente lungo la storia della letteratura (o del cinema, come dimostrano le infinite incarnazioni che il personaggio ha avuto nel corso degli anni) non è farina del mio sacco.
L’ispirazione principale mi è arrivata dallo splendido pezzo di Linda Holmes su npr.org, intitolato “A Girl, A Shoe, A Prince: The Endlessly Evolving Cinderella”, nel quale viene posto un semplice ma fondamentale quesito: se la storia di Cenerentola non è altro che il racconto aspirazionale di una figura sottomessa che viene salvata da una vita ordinaria e guidata verso una vita straordinaria, non si può forse dire che la Sirenetta è Cenerentola? Perché non Pretty Woman, o Twilight?
E, a voler andare fino in fondo, Capitan America? Cosa significa “fata Turchina” nel nostro linguaggio corrente, se non “carta di credito di Richard Gere”, piuttosto che “essere morsi da un ragno radioattivo”?
Alla luce della recente uscita al cinema dell’ennesima trasposizione della favola di Cenerentola, la vera domanda potrebbe diventare: come è possibile che si continui a raccontare in eterno la stessa storia? Perché siamo così legati, e il successo commerciale del film lo dimostra, a un ipotetico eroe che in realtà potrebbe avere mille facce?
Ciò che più mi disturba è che a me Capitan America piace, e Cenerentola mi sta profondamente antipatica.
Il primo combatte a colpi di scudo in faccia, e la seconda a colpi di speranze di accasarsi con un principe, e questo non dovrebbe bastare a distinguere un personaggio dall’altro? O sono davvero la stessa persona?
Ho sempre pensato che ci fosse qualcosa di intrinsecamente sbagliato nella parabola di Cenerentola. Da bambini non ce ne rendiamo conto, ma da adulti è impossibile sfuggire al sapore di retrogrado sessismo di un’eroina che, sulla carta, non ha nessun merito nel lieto fine che ottiene. Cenerentola non salva, ma viene salvata.
È passiva in tutto e per tutto, e la sua più grande rivolta contro la condizione di reclusione e schiavitù nella quale è calata consiste nel piangere e cantare insieme agli uccellini. Davvero le bambine di oggi trovano attuale o interessante questo racconto?
Davvero dobbiamo ancora convivere con la bieca sociologia disneyana della ricerca del principe azzurro come fine ultimo di una vita?
Cenerentola è l’archetipo fondativo di una impressionante quantità di “mitologia” contemporanea, a partire dalla narrativa supereroistica tanto popolare in questi primi decenni del 2000.
Ma la triste verità è che Cenerentola è anche una favola tremendamente obsoleta, dove l’eroina al centro della vicenda non è l’artefice del proprio destino.
Al contrario di Capitan America. Che, per quanto mi riguarda, dovrebbe essere la Cenerentola moderna.
Tornando alla questione del “perché continuiamo a raccontarci la stessa storia”, credo che la risposta più semplice sarebbe dire che non abbiamo nuove storie da raccontare, e verrebbe da chiedersi da chi o cosa Cenerentola ha preso ispirazione.
Un’altra ragione risiede nel nostro innato piacere nell’ascoltare la storia di qualcuno che vuole diventare qualcosa di più. Riceviamo una rassicurazione inconscia nella vicenda di un personaggio che “ce la fa” e realizza i propri sogni, e Cenerentola funziona su questo primitivo livello: è il riflesso delle nostre speranze, e poco importa se si tratta di una ragazzina che sogna solo di accasarsi e mettere su famiglia, e quello è il massimo delle sue aspirazioni. Nessuna carriera, nessuna auto-affermazione.
Ascoltare la storia di qualcuno che ha successo nella vita è un’arma potente, tanto che spesso viene usata per veicolare il messaggio che fa più comodo.
Il recente successo del “Cinderella” di Kenneth Branagh è l’ulteriore conferma che questa roba funzionerà sempre.
Si parla di principi azzurri e soprattutto di scarpe: vincere facile.
Forse è vero che ci stiamo raccontando da sempre la stessa storia, stiamo tramandando lo stesso DNA composto in diverse sequenze. Ma dovremmo cercare di crescere come cantastorie: Cenerentola è una ragazzina a cui la magia permette di andare a un ballo, ammaliare un principe e lasciare che lui risolva tutti i suoi problemi.
Capitan America, d’altra parte, è un ragazzino a cui la magia (o chi per essa, diciamo la “magica scienza” dei fumetti) permette di risolvere attivamente problemi, picchiare i cattivi, combattere i nazisti e discutere di filosofia politica (andate a vedere “Capitan America: the winter soldier” o leggete i fumetti di Ed Brubaker per credere).
Non c’è affatto bisogno che smettiamo di raccontare la stessa storia, né c’è necessariamente qualcosa di male nel fatto che Disney riproponga ciclicamente un adattamento di Cenerentola per le nuove generazioni.
Ma forse dovrebbe trattarsi di una trasposizione “attuale” e culturalmente rilevante: qualcosa di diverso da una conclusione che ti fa pensare “prima o poi un uomo ricco verrà a portarmi via da questa vita”, magari più vicino a una delle mille Cenerentole possibili di cui abbiamo testimonianza.
Da Spider-Man a Rapunzel fino a Harry Potter, forse la cosa che conta è che i nostri eroi siano gli artefici del proprio destino, saldi alla guida della loro zucca magica.
Davide Mela
@twitTagli