1) PIRATA, SCHIAVISTA E LADRO. «Da giovane – scrive lo storico Massimo Viglione, nel suo “L’identità ferita” (Ares)- dopo aver partecipato al tentativo mazziniano di invasione del Regno di Sardegna, Garibaldi si mise dapprima a fare il pirata al seguito del bey di Tunisi e poi fu costretto a fuggire in Sudamerica per non finire impiccato. Quindi si coinvolse prima nel furto di cavalli in Perù (dove gli vennero tagliati i padiglioni degli orecchi), e poi praticò la pirateria per il commercio degli schiavi asiatici». Pirata, negriero e ladro. Conferme arrivano da altri storici, come L. Leoni, O. Calabrese, A. Pellicciari, e persino da un agiografo di Garibaldi come Giovanni Spadolini che ne accenna ne “Gli uomini che fecero l’Italia” (TEA 1999). Più esplicito lo storico del Risorgimento, Giorgio Candeloro, che, intervistato su “La Repubblica” del 20/1/1982, fornisce dettagli maggiori: «Comunque Garibaldi, un po’ avventuriero, un po’ uomo d’azione, non era tipo da lavorare troppo a lungo in una fabbrica di candele. Va in Perù, e, come capitano di mare, prende un comando per dei viaggi in Cina. All’andata trasportava guano, al ritorno trasportava cinesi per lavorare il guano: la schiavitù in Perù era stata abolita e il guano non voleva lavorarlo più nessuno. Insomma un lavoretto un po’ da negriero. Era un avventuriero, un uomo contraddittorio, fantasioso, un personaggio da romanzo».
2) NESSUN MERITO PERSONALE. Ma fu l’impresa dei Mille a riabilitarlo, si dice. Innazitutto, sottolinea Agnoli, «Garibaldi non fu affatto il conquistatore straordinario di cui si è a lungo parlato e che il mito della sua invincibilità fu creato ad arte ancora prima che egli ritornasse, dall’America, in Italia. Nella sua spedizione al sud, Garibaldi contò anzitutto sull’appoggio inglese, senza il quale non avrebbe potuto far nulla». Lo conferma anche Gilberto Oneto nel suo “La strana unità” (il Cerchio 2011): oltre ad una flotta inglese che seguì la spedizione garibaldina, si coinvolse anche una legione di “volontari” inglesi, senza contare l’importanza dei grandi finanziamenti ottenuti dall’Inghilterra. Pier Giusto Jaeger, nel suo “L’Ultimo re di Napoli” (Mondadori 1997), ricorda che Garibaldi non affrontò una sola battaglia di consistenza vera, sino a quella del Volturno, dove ebbe l’appoggio, oltre che degli inglesi, anche dei piemontesi guidati dall’ammiraglio Persano, scesi dal nord più per evitare che le sue incerte e traballanti conquiste sfumassero, che per impedire la sua marcia su Roma. E’ proprio Persano, nel suo “Diario” (Studio Tesi 1990), a fornirci ulteriori testimonianze sulla corruzione e il tradimento come i mezzi principali con cui il Nizzardo ottenne la vittoria. Persano era stato inviato da Cavour in Meridione, come ricorda Angela Pellicciari, proprio con lo scopo di «proteggere-tallonare-controllare Garibaldi, organizzare l’invio di uomini e armi che affianchino i Mille, corrompere i quadri della marina e dell’esercito borbonici» (“I panni sporchi dei Mille”, Liberal 2003). Non dovette neppure affrontare una vera resistenza, dal momento che il re Francesco II, cugino del sovrano sabaudo, era stato convinto a lasciare il paese, rinunciando quindi ad una strenua difesa, anche su consiglio del suo ministro dell’Interno, il traditore Liborio Romano, al fine di evitare lo spargimento del sangue dei suoi sudditi.
3) LIBERO’ ERGASTOLANI ED ASSASSINI. La vittoria di Garibaldi fu ottenuta anche grazie ai suoi proclami, in cui prometteva libertà e terre. Sappiamo bene cosa ne ebbe il Meridione. Come raccontano gli storici, Giovanni Verga, già garibaldino, nella novella “Libertà”, in cui descrive le stragi indiscriminate del luogotenente garibaldino Nino Bixio, e Luigi Pirandello, anch’egli di famiglia antiborbonica e risorgimentale, che però nella sua novella “L’altro figlio”, fa dire ad una protagonista che Garibaldi asseriva sì di portare “la libertà”, ma si limitò a liberare dalle carceri tutti i delinquenti e i criminali, per destabilizzare il regno dei Borboni. Afferma la protagonista della novella di Pirandello: «…vossignoria deve sapere che questo Cunebardo (storpiatura popolare di Garibaldi, ndr) diede ordine, quando venne, che fossero aperte tutte le carceri di tutti i paesi. Ora, si figuri vossignoria che ira di Dio si scatenò allora per le nostre campagne. I peggiori ladri, i peggiori assassini, bestie selvagge, sanguinarie, arrabbiate da tanti anni di catena…». Scriverà qualche decennio più tardi un altro scrittore siciliano, Carlo Alianello, nel suo “La conquista del sud” (Il cerchio 1994): «Lo stesso giorno 20 ottobre (1860) il Dittatore, il quale esiliava vescovi, arcivescovi e cardinali, fece grazia a tutti i condannati all’ergastolo e alla galera per delitti comuni. Garibaldi sbarazzava le carceri di quei malfattori, per mettervi ufficiali, magistrati, aristocratici, preti e frati. E così si faceva l’Italia».
4) DITTATORE ODIATO DAL MERIDIONE. Le terre promesse da Garibaldi finirono non certo nelle mani dei contadini, verso cui dimostrava disprezzo (li considerava “servi dei preti”, perché non si associavano alle sue scalmanate camice rosse), ma dello Stato piemontese, dell’aristocrazia e della borghesia fondiaria meridionale, che capirono subito, come ci dice Tommasi di Lampedusa nel suo “Il gattopardo”, che si poteva benissimo cambiare tutto, anche mettendo la camicia rossa, senza cambiare nulla, o forse, guadagnandoci ancora di più (Tommasi di Lampedusa accenna infatti allo spartizione, da parte dei nuovi vincitori, delle terre comuni e di quelle della Chiesa, che sino ad allora servivano invece, molto spesso, al sostentamento delle classi più povere). Non è un caso che dopo la conquista della Sicilia, Garibaldi abbia trovato più amici a Torino e a Londra che in Meridione. Qui infatti, come testimonia Giuseppe La Farina, braccio destro di Cavour nella organizzazione della spedizione dei Mille, le cui lettere sono state pubblicate sempre da Angela Pellicciari nel testo citato, Garibaldi e i suoi avventurieri si erano subito rivelati per quello che erano: saccheggiatori di ogni ricchezza, pubblica e privata, nelle orge e nel dispotismo. Lo stesso Garibaldi, nelle sue “Memorie” (Bur 1998), affermava: «Si cominciò a parlare di dittatura, ch’io accettai senza replica, poiché l’ho sempre creduta la tavola di salvezza nei casi d’urgenza e nei grandi frangenti in cui sogliono trovarsi i popoli». Dittatore, senza il sostegno della popolazione, deciso ad imporre ovunque la legislazione piemontese e la leva militare obbligatoria, dai 17 ai 50 anni, ad un popolo che non la conosceva, e che non aveva nessuna intenzione di arruolarsi in massa per guerre che non condivideva e non capiva. Questa è l’origine dell’emigrazione di massa, fenomeno prima pressoché inesistente, le rivolte contro l’occupazione piemontese, e i moti anti-sabaudi come quello di Palermo (1866) repressi nel sangue dai prefetti e dall’esercito piemontesi. Garibaldi sempre più spesso lanciava improperi contro l’Italia che aveva contribuito a costruire, e di cui fu anche, più volte, parlamentare ultra-assenteista. Dopo essere passato dalla fede repubblicana mazziniana al ruolo di dittatore in Meridione alla fede monarchica, per cambiare ancora, scriveva: “Potendolo, e padrona di se stessa, l’Italia deve proclamarsi Repubblica, ma non affidare la sua sorte a cinquecento dottori (cioè ad un parlamento, ndr), che dopo averla assordata con ciarle, la condurranno a rovina. Invece, scegliere il più onesto degli italiani e nominarlo dittatore temporaneo…Il sistema dittatoriale durerà sinchè la Nazione sia più educata a libertà… Allora la dittatura cederà il posto a regolare governo repubblicano”. Come nota lo storico Mario Isnenghi, infatti, proprio l’opposizione alla unificazione del Meridione al Regno di Sardegna, che cominciò già nel 1860 e che va sotto il nome di “brigantaggio”, «può considerarsi pressoché l’unica manifestazione reale, per estensione geografica, partecipazione numerica e durata, di presenza attiva delle masse subalterne negli anni del Risorgimento». Fu Garibaldi stesso a riconoscere, in una lettera ad Adelaide Cairoli: «Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Ho la coscienza di non aver fatto del male. Nonostante ciò, non rifarei la via dell’Italia Meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi là cagionato solo squallore e suscitato solo odio».
5) SUPERFICIALE E ROZZO. La popolarità dell’eroe dei due mondi sbiadì comuque presto, anche al di fuori del Meridione. Racconta un agiografo come Alfonso Scirocco, nel suo “Giuseppe Garibaldi” (Laterza 2005), che molto presto per la storia dei Mille, narrata da Nizzardo stesso, «è difficile trovare un editore disposto a garantire le 30.000 lire richieste dall’autore». Dovette scendere in campo la Massoneria. Negli ultimi vent’anni della sua vita Garibaldi, per mantenere vivo il suo mito, si diede alla scrittura. E’ proprio leggendo quest’ultimi, infatti, con la loro “traballante macchina narrativa”, la “lutulenza alternata all’improvvisa secchezza”, l’ “invadenza e la ripetitività degli squarci polemici”, il “carattere macchiettistico dei personaggi”, le “filippiche antigovernative e le prediche anticlericali” (in Mario Isnenghi, “Garibaldi fu ferito” Donzelli 2007), che il lettore contemporaneo capisce di trovarsi di fronte ad un personaggio imbarazzante, quasi una caricatura. Un avventuriero senza alcuna profondità né di dottrina né di pensiero, ma fanatico, ripetitivo ed intollerante, nel quale -scrisse il The Times di quegli anni, «ha rozze nozioni di democrazia, comunismo, cosmopolitismo e positivismo che si mescolano nel suo cervello».
6) DONNAIOLO E PUTTANIERE. Strapazzò allegramente donne e figli – infatti ebbe «tre mogli ufficiali e un numero imprecisato di amanti che gli sfornano un bel po’ di figli», come nota Gilberto Oneto. Mentre Alfonso Scirocco allude alle “facili occasioni” che “da vecchio marinaio” amava cogliere con le donne, numerose, che incontrava nei suoi viaggi, e Luca Goldoni dedica un intero libro alle sue numerose avventure, ribattezzandolo “L’amante dei Due Mondi”-, con la stessa superficialità con cui aveva combattuto e ucciso o con cui aveva elogiato gli omicidi carbonari come quello di Pellegrino Rossi, che avevano contribuito ad impedire che l’Italia conoscesse un’unificazione pacifica e federalista.
7) PERVERSO VERSO LA CHIESA. Dalla lettura degli scritti di Garibaldi, si evince anche il suo odio inverecondo e ossessivo per la Chiesa cattolica: «In ogni mio scritto io ho sempre attaccato il pretismo, perché in esso ho sempre creduto di trovare il puntello d’ogni dispotismo, d’ogni vizio, d’ogni corruzione. Il prete è la personificazione della menzogna. Il mentitore è ladro. Il ladro è assassino: e potrei trovare al prete una serie di infimi corollari. Molta gente, ed io con questa, ci figuriamo di poter sanare il mondo dalla lebbra pretina coll’istruzione…Quindi libertà per i ladri, per gli assassini, le zanzare, le vipere, i preti! E cotesta ultima nera genìa, gramigna contagiosa dell’umanità, cariatide dei troni, puzzolenta ancora di carne umana bruciata, ove signoreggia la tirannide, si siede tra i servi, e conta nella loro affamata turba. Amanti della pace, del diritto, della giustizia. La guerra es la verdadera vida del ombre!», scriveva nella prefazione delle sue “Memorie” (Gaspari 2004). Nelle sue lettere definiva Pio IX «quel metro cubo di letame», invitava a rompere i confessionali, «resi utili a far bollire i maccheroni della povera gente», e a schiacciare il «verme sacerdotale». Mario Isnenghi considera gli scritti di Garibaldi il modello che userà Mussolini nel suo romanzo anticlericale: “Claudia Particella, l’amante del cardinale”. Garibaldi conclude la sua opera parlando di se stesso: «Odia i preti come istituzione menzognera e nociva… Professa idee di tolleranza universale e vi si uniforma, ma i preti, come preti non li accetta perché egli non intende siano tollerati malfattori, ladri, assassini. Egli è d’avviso che la libertà di un popolo consiste nella facoltà di eleggersi il proprio governo, che secondo lui deve essere dittatoriale, cioè di un uomo solo».